La tregua tra Israele e Hamas non sembra più così vicina. Il nodo da sciogliere resta il cessate il fuoco definitivo, che Usa e Israele non vogliono concedere e che invece l’organizzazione palestinese chiede con forza. Dietro il dibattito c’è anche una spaccatura interna ad Hamas: la pausa nei combattimenti servirebbe finalmente a dare respiro alla popolazione stremata da una vita senza casa, cibo, acqua, ridotta a sopravvivere in condizioni disumane. Manca una soluzione politica che, al di là della guerra, getti le basi per una convivenza pacifica: da parte palestinese si vorrebbe ridare vita all’OLP, facendolo diventare l’interlocutore principale per definire il futuro e dando un ruolo anche ad Hamas, epurato della sua ala militare.
Un’ipotesi, spiega Filippo Landi, già corrispondente Rai da Gerusalemme e poi inviato del Tg1 Esteri, sul modello dell’Irlanda del Nord, in cui l’IRA, l’esercito repubblicano nordirlandese che voleva l’indipendenza dagli inglesi, ha lasciato il posto al Sinn Fein, che è stato organo politico dell’IRA e che, come partito, ora ha espresso anche il primo ministro dell’Irlanda del Nord. Intanto Israele continua a tenere sotto pressione la Cisgiordania e sta cercando 65mila operai da India, Sri Lanka e Uzbekistan per sostituire i lavoratori palestinesi.
Perché la tregua non è ancora decollata, qual è il nodo che non si riesce a sciogliere?
Blinken sta iniziando il suo ennesimo giro in Medio Oriente e, secondo quanto annunciato, non andrà ad Amman, segno che forse ci sono tensioni forti con il re di Giordania. Prima di partire ha detto, con molto impeto, due cose importanti: la prima è che il problema principale oggi è quello umanitario a Gaza; la seconda è che adesso la palla è nelle mani di Hamas, facendo intuire che Usa e Israele hanno definito una proposta che considerano interessante per i palestinesi e che aspettano una risposta. Sull’altro versante c’è l’affermazione dei vertici politici di Hamas che il nodo della trattativa è il cessate il fuoco permanente. Una richiesta giustificata dalle condizioni devastanti di due milioni di residenti a Gaza e dalle prese di posizione delle organizzazioni delle Nazioni Unite, secondo le quali gli aiuti non arrivano e anzi a volte, come riportato anche da siti israeliani, i convogli che li trasportano vengono colpiti quando si spingono nel Nord della Striscia.
Perché americani e israeliani non vogliono la conclusione definitiva delle operazioni militari?
Il rifiuto di Usa e Israele di concedere un cessate il fuoco permanente trova le sue ragioni nella mancata volontà e capacità di affrontare una via di uscita politica per la guerra. Per Biden, Blinken e Netanyahu il conflitto militare non è ancora finito, anche al prezzo di altre migliaia di vittime e di una guerra che si prolunghi nel tempo. Nonostante i tentativi, soprattutto da parte europea, di coinvolgere l’Autorità nazionale palestinese (ANP) e di preparare un suo ritorno a Gaza appena il conflitto si fermasse, il fronte politico non fa progressi.
Si parla, rispetto alla tregua, di una spaccatura interna ad Hamas. Su quali posizioni?
Nella discussione interna ad Hamas si evidenziano due elementi: da una parte bisogna guardare in faccia la realtà devastante delle condizioni dei palestinesi a Gaza, in totale assenza di aiuti veri che possano soddisfare i bisogni quotidiani; dall’altra c’è il tentativo di utilizzare questo momento della trattativa per indicare il cessate il fuoco permanente come l’occasione giusta per creare le premesse per una soluzione non più militare. La conclusione definitiva dei combattimenti pone la necessità di uscire da un altro tipo di disastro, in corso in Cisgiordania, con le azioni che i settlers (coloni) e l’esercito mettono in campo ogni giorno contro i palestinesi.
Se per quanto riguarda la tregua americani e israeliani sembrano sulla stessa linea, Biden nei giorni scorsi ha sanzionato quattro coloni della West Bank per azioni violente nei confronti di civili palestinesi. Solo un’azione dimostrativa che nella sostanza non cambia le cose?
Queste sanzioni hanno un evidente valore politico ma nessun effetto pratico: nessun settler verrà colpito nella sostanza. Il fatto è che si avvicinano le primarie nel Michigan, Stato importante anche per l’immagine che Biden può riverberare sull’intera campagna elettorale: i sondaggi dicono che sta diventando un problema, perché la forte comunità araba è molto combattiva nei confronti di Biden e del suo staff per il comportamento tenuto a Gaza. C’è anche bisogno di evitare che l’elettorato ebraico trasmigri verso Trump. In gioco c’è la decisione di inserire nel pacchetto di aiuti all’Ucraina più di 14 miliardi di dollari a Israele, a cui si aggiungono alcuni miliardi di dollari per mantenere le operazioni nel Mar Rosso.
Tra Usa e Israele, quindi, non c’è una vera spaccatura?
No. Ben Gvir, però, ha detto al Wall Street Journal che Trump si sarebbe comportato diversamente da Biden in Medio Oriente: una minaccia nemmeno troppo velata a Biden perché non cambi linea nel momento in cui le elezioni si avvicinano.
Qual è allora l’obiettivo del nuovo viaggio di Blinken tra le capitali arabe?
Ottenere un cessate il fuoco alle condizioni di Netanyahu e degli stessi Stati Uniti. Spingere Hamas ad accettarlo perché può essere di aiuto alla campagna di Biden, ma allo stesso tempo prevedere alla fine della tregua la ripresa del conflitto.
Manca, comunque, una vera indicazione su quale potrebbe essere la soluzione politica della guerra.
Sì. La ragione della mancata visita ad Amman forse sta in questo: la Giordania sa che in assenza di una soluzione politica del conflitto le conseguenze per il Paese e i palestinesi della Cisgiordania sarebbero devastanti.
Ma quale può essere il punto di partenza per definire questa soluzione?
Nelle intenzioni di Hamas e di una parte dell’ala laica dei palestinesi, anche se non di Abu Mazen, c’è la volontà di ridare vita e spessore politico all’OLP, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina.
Per questo è stato chiesto agli israeliani di liberare Marwan Barghouti, leader dell’Intifada detenuto nelle carceri israeliane?
Sì. Dall’altra parte, però, c’è l’opposizione di Israele, di alcuni Paesi europei e degli Usa a vedere la componente politica di Hamas giocare un ruolo nel futuro della Palestina. Chi sostiene la soluzione che punta sull’OLP fa il paragone con quello che è successo nell’Irlanda del Nord, ricordando il ruolo politico che ha avuto il Sinn Fein quando l’ala militare, l’IRA, di fatto è stata chiusa.
Hamas diventerebbe un partito politico e basta?
Oggi in Hamas il rapporto tra ala militare e ala politica è spostato verso la prima. Ci dovrà essere una resa dei conti interna che potrebbe essere decisa dalla comunità internazionale: non basta affermare che la soluzione è la realizzazione di due Stati, bisogna dire che lo Stato palestinese riguarda Gaza, Gerusalemme Est e Cisgiordania. Senza questi elementi, la resistenza militare allo Stato di Israele resterà forte.
Israele intanto starebbe cercando 65mila operai indiani, dello Sri Lanka e dell’Uzbekistan per sostituire i 72mila palestinesi che prima lavoravano in Israele. La maggior parte sono della Cisgiordania: un modo per tenere alta la pressione anche lì?
A dir la verità, 20mila lavoratori, impegnati in attività agricole, venivano da Gaza, mentre 50mila dalla Cisgiordania, impiegati nell’edilizia. Questa richiesta di operai stranieri da parte di Israele si era già verificata in passato, aveva portato all’arrivo di molte migliaia di lavoratori, soprattutto thailandesi. Dopo il 7 ottobre, buona parte dei thailandesi hanno lasciato Israele. Molti hanno avuto difficoltà a portare a compimento le pratiche della ricongiunzione familiare. La pressione in Cisgiordania degli israeliani, comunque, è ancora alta, sulle strade c’è un numero smisurato di posti di blocco e persino andare da Gerusalemme a Betlemme è diventato quasi impossibile.
(Paolo Rossetti)
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