Hamas non ha più l’appoggio di Hezbollah. Biden vuole uscire di scena con una tregua. Israele comincia a sentire la contestazione interna per i bombardamenti a Gaza e il peso di una guerra che sta lasciando il segno dal punto di vista economico e sociale. Il cessate il fuoco nella Striscia, spiega Paola Caridi, saggista e presidente di Lettera 22, sembra convenire a tutti e potrebbe arrivare prima di Natale. Però ci sono ancora alcune questioni da chiarire: come liberare gli ostaggi e, soprattutto, in cambio di quali e quanti prigionieri palestinesi. Per le trattative, tuttavia, si sono mobilitati il capo della CIA William Burns e David Barnea, direttore del Mossad, segno che il tentativo di accordo potrebbe essere più serio del solito. Ad Hamas, comunque, è toccato cedere sulla presenza dei soldati israeliani: prima esigeva che se ne andassero, adesso, una volta silenziate le armi, li tollererebbe.
Il capo della CIA a Doha, Hamas che racconta di un accordo vicino se Israele non cambia le carte in tavola. Per un’intesa su tregua e ostaggi a Gaza è la volta buona?
Hamas dice che le proposte arrivate da Qatar ed Egitto sono serie: le trattative possono portare a qualcosa, a meno che Israele non inventi nuove condizioni. La novità è che tutti hanno bisogno di un cessate il fuoco di 60 giorni che entri in vigore prima di Natale, ovvero prima di Hanukkah (la festa ebraica delle luci, nda), che comincia nello stesso giorno. La tregua va fatta prima della fine dell’amministrazione Biden. Hamas sente la pesantezza della situazione a Gaza: il numero e la ferocia dei bombardamenti in questi ultimi due mesi non hanno precedenti. Si parla anche sempre di più dell’uso di nuovi tipi di arma.
Rispetto alle trattative precedenti il contesto mediorientale è cambiato molto. Quanto influisce sui negoziati?
Quello che è successo in Siria e in Libano ha tolto sostegno ad Hamas. Con Damasco, a dir la verità, l’organizzazione palestinese aveva chiuso le relazioni per molti anni e le aveva riprese nel 2022. In Libano, però, Hezbollah non può più sostenere la causa di Gaza. Hamas, per questo, ha bisogno della tregua, anche guardando a quello che le forze di sicurezza dell’ANP di Abu Mazen stanno facendo in Cisgiordania. Si sapeva che agivano in coordinamento con gli israeliani, ma adesso si sono rese protagoniste di un raid all’interno del campo di Jenin, dove hanno ucciso il capo del battaglione del Jihad islamico. Questo, anche se l’Egitto aveva mediato una governance comune Hamas-Fatah per il dopoguerra nella Striscia.
Anche a Israele fa comodo la tregua?
Più agli USA. Israele sta agendo come se non avesse confini. Avere Gaza, Cisgiordania, Gerusalemme est e Golan significa già realizzare la Grande Israele: si sta andando verso questo scenario. Nel Golan e in Libano gli israeliani vogliono restare. I coloni hanno già effettuato dei sopralluoghi non solo a Gaza, ma anche in Siria e in Libano.
Perché allora la tregua sembra possibile a Gaza?
Perché tutti sono in una fase di transizione e devono portare a casa un risultato per Natale. Chi regge più la carneficina nella Striscia?
Deve accadere per Natale perché questa data renderebbe più evidente il disastro che è stato perpetrato a Gaza?
Sì. Tutti continuano a indicare questa data: prima di Natale. Che vuol dire anche prima di Hanukkah. Pure in Israele cominciano le manifestazioni in cui si chiede di smettere di bombardare i palestinesi. Sono posizioni sostenute da pochi, ma si inizia a porre il problema. Uno dei ministri del governo Netanyahu ha detto che ci sono 13.500 feriti nell’esercito, cui si aggiungono 5.000 soldati sotto cura psicologica: non sono pochi.
Alla fine, quindi, anche gli israeliani hanno i loro motivi per accettare una tregua?
Netanyahu vorrebbe continuare, anche perché altrimenti dovrebbe comparire almeno due volte a settimana in un Tribunale a Tel Aviv, dove si tiene un processo che lo vede accusato di tre capi di corruzione dopo otto anni di indagine. D’altra parte, al suo interno Israele subisce la pressione di un Paese che da quindici mesi è in guerra, che deve tenere conto dell’impegno delle truppe, della crisi economica. E c’è la pressione dell’amministrazione Biden, che dopo aver finanziato e dato armi vuole finire il mandato portando a casa una tregua di 60 giorni per poi lasciare che ci pensi Trump.
Per questo, stavolta la trattativa su ostaggi e tregua potrebbe andare a buon fine?
Non è la prima volta che i capi della sicurezza americana e israeliana vanno a Doha, ma il Qatar era stato molto chiaro: “Tornate solo se volete portare a casa la tregua”. E a Doha ci sono tornati tutti, anche Hamas. In Egitto, nei giorni scorsi, è andato il capo di stato maggiore israeliano Herzi Halevi: è la prima volta che succede.
L’accordo cosa prevede? Cosa è cambiato rispetto ai mesi precedenti?
Hamas ha sempre detto che per trovare un accordo le truppe israeliane se ne dovevano andare da Gaza. Adesso è praticamente impossibile. L’intesa prevederebbe la liberazione degli ostaggi ancora in vita in cambio di non si sa quanti prigionieri palestinesi che dovrebbero essere liberati. Resta poi il tema delle salme degli altri ostaggi.
È questa la vera questione da chiarire per accordarsi? Quali palestinesi liberare?
Sì, questo è il punto da chiarire. Lo ha detto anche il consigliere per la sicurezza nazionale USA Jake Sullivan. Bisogna capire quali sono i prigionieri che dovranno essere liberati e quando potrebbe succedere. Ma c’è un altro punto interrogativo: dove sono gli ostaggi, da dove devono arrivare, come faranno a consegnarli? Gaza è ormai distrutta. L’anno scorso dovevano essere consegnati a Rafah, che ora non esiste più. È comunque cambiato il contesto: probabilmente su Hamas hanno fatto pressione sia l’Iran che Hezbollah, facendo capire che non possono più difenderli. Potrebbe aver fatto pressione anche la Turchia.
La tregua può essere la preparazione a un accordo di pace?
La tregua nascerebbe da un insieme di debolezze. Per Netanyahu conta anche il mandato di arresto internazionale. Se la fanno dovrebbe reggere per un po’: che resista 60 giorni dipende da come gestiranno lo scambio ostaggi-prigionieri. Ci sono più di 10.000 detenuti palestinesi: dalle persone che verranno liberate si capirà che tipo di accordo è. Non credo, però, che lasceranno andare Marwan Barghouti. Comunque, non sono convinta che riuscirà a rappresentare tutte le anime della società palestinese. Potrebbe essere lui, tuttavia, a mettere insieme una leadership che va oltre l’ANP, mettendo Abu Mazen fuori dalla vita politica.
(Paolo Rossetti)
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