Era il dicembre 2018 quando Pina Orlando in preda alla disperazione decise di gettarsi nel Tevere assieme alle due gemelline Benedetta e Sara, da pochi giorni dimesse dall’ospedale dopo oltre 4 mesi di ricovero: una morte terribile, un suicidio assurdo e dei sensi di colpa che oggi il medico che le ebbe in cura non riesce a togliersi. Si chiama Giovanni Vento e il Corriere della Sera lo ha raggiunto al convegno organizzato dalla Fondazione Gemelli sul tema “Neonato prematuro al centro delle cure di terapia intensiva”. «Mi porto dietro sensi di colpa anche se più di così per lei non avremmo potuto fare», spiega il professore quasi commosso nel ricordo di Pina e delle sue gemelline. Benedetta era uscita il 21 novembre, Sara invece pochi giorni prima dell’insano gesto (il 18 dicembre), ma quella mamma si sentiva di fronte a sé un futuro praticamente insormontabile date le premesse: il medico ha infatti spiegato come Pina Orlando con ogni probabilità si sentiva oppressa dal pensiero di crescere bimbe non sane a causa di un intervento quantomeno “azzardato” di procreazione medicalmente assistita in una clinica fuori Roma.



IL MEDICO DELLE GEMELLINE MORTE NEL TEVERE

«È stato uno stimolo a migliorare l’organizzazione del reparto favorendo il contatto tra operatori e genitori», racconta il professor Vento ricordando il dramma della famiglia di Pina. Quelle gemelline erano nate alla 25esima settimana di gravidanza, tra i 600 e 800 grammi di peso con la malattia della prematurità che purtroppo spesso risiede dietro la procreazione mediamente assistita (e non solo). Dopo quell’esperienza negativa, il dottor Vento e altri professori romani hanno dato il via ad un centro con caratteristiche speciali e un progetto pilota legato al rapporto con genitori e neonati prematuri. «Aperto 24 ore su 24, psicologi strutturati nel team anziché chiamanti on demand, i genitori muniti di un badge per entrare in terapia intensiva e accostarsi alle incubatrici senza barriere», spiega il CorSera prima di sentire direttamente il dottor Vento «Quando un bambino muore, esaminiamo subito l’intero percorso di cura per capire se abbiamo commesso un errore o sottovalutato una situazione critica. Gli psicologi e lo psichiatra non avevano individuato in quella donna segnali di rischio. Noi neonatologi, fin dalla nascita delle gemelline, avevamo però allertato gli psicologi perché Pina nel parto aveva perso un terzo gemello e ne era uscita scossa. Però non aveva voluto ricorrere al sostegno offerto». Il senso di colpa nasce dal rapporto tenuto con Pina in quei mesi drammatici, con il professore che ammette «Nel parlarle siamo stati realisti, non nascondendo che le bambine avrebbero dovuto recuperare gli esiti di emorragia cerebrale. Un’informazione come questa probabilmente è stata interpretata in modo negativo da un genitore fragile come era lei. Abbiamo fatto tutto ciò che era possibile allora – conclude il professor Vento – Però questa storia dolorosissima ci ha insegnato che non basta, che dobbiamo fare e dare di più ai genitori dei neonati prematuri in termini di vicinanza e condivisione. Il nostro impegno non deve esaurirsi nell’assistenza ai bambini, deve andare oltre e focalizzarsi sul gruppo familiare. Noi infatti proponiamo che le terapie intensive anziché neonatali si chiamino familiari. I genitori fanno parte delle cure».

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