Henry Brogan ha speso tutta la vita al servizio del suo Paese, stimato agente segreto americano, dall’animo buono ma dal grilletto infallibile. In crisi di coscienza e motivazione, Brogan vuole la pensione, ma ancora un’ultima missione, più difficile delle altre, lo aspetta. Eliminare un pericoloso killer, altrettanto spietato, prestante e imprevedibile, capace di anticipare le sue mosse quasi fosse se stesso. Sarà il progetto Gemini a svelargli il mistero e il complotto che tocca ancora una volta a lui dipanare.
“Come mai non riesci a uccidere quell’uomo?”, chiede all’irreprensibile agente segreto Brogan (Will Smith) il suo torbido superiore, con fare incredulo. Will Smith, sicario senza macchia e senza paura al servizio dell’intelligence americana, ha problemi con se stesso: un killer gemello, di lui più spietato, feroce e determinato, di quasi trent’anni più giovane. Un vero e proprio clone, nella basica storia del film e, di fatto, nella stessa tecnologia che l’ha reso possibile.
Gemini man è un esercizio di cinema futuristico che imbraccia il tema del doppio, della paura di sé e poche altre superficiali domande, come pretesto per raccontare e mettere in scena un mirabile prodotto tecnologico. Creato e scritto vent’anni fa, quando la tecnica cinematografica era ancora indietro anni luce, passato nelle mani di differenti sceneggiatori, il progetto ha considerato nel tempo attori come Harrison Ford, Mel Gibson, Jon Voight, Clint Eastwood, Nicolas Cage, Sean Connery, per poi prendere forma nelle sincere espressioni di Will Smith.
Gemini man è un film da fruire in 3D, per sgranare gli occhi di fronte all’eccezionale High Frame Rate applicato al 3D, a 120 frame al secondo. In altre e più semplici parole, un film fatto di immagini digitali che scorrono fluide e naturali come la realtà. E di digitale c’è più di mezzo film, visto che il clone ringiovanito di Smith è un costrutto tecnologico che trasforma la finzione videoludica in cinema senza che lo spettatore percepisca la finzione.
La magia è tecnologica. E solamente tecnologica. Il resto è un grande deja vu. Appoggiato a una storia piuttosto imbarazzante, Gemini man si gonfia di inseguimenti e sparatorie, passando di livello in livello quasi fosse un videogioco, trovando spazio per ordinari complotti, colpi di scena telefonati e l’immancabile storia d’amore a prima vista, che giustifica l’eroica disponibilità al martirio.
Nulla di insolito per il codificato cinema d’America, ma quanto mai deludente per lo stimato regista taiwanese Ang Lee, autore di storie memorabili, come l’avvincente Vita di Pi o il coraggioso I segreti di Brokeback Mountain. In ogni caso, il giocattolo funziona per ritmo, scenari e rocamboleschi inseguimenti, ma ha davvero poco da aggiungere allo sterminato database del cinema di azione, fantascienza, spionaggio o fantapolitica che sia.
Nonostante l’esperienza visiva coinvolgente, ennesimo tentativo di rilancio del 3D, quest’oggi in definizione stellare, rimane paradossalmente la sensazione di vivere fuori dalla realtà, distaccati dalle emozioni più profonde dell’anima. L’empatia non scorre, di fronte alle lacrime del peraltro bravo Will Smith. La magia del coinvolgimento, anche quello senza pretese, è filtrato dalla barriera digitale, fisicamente incarnata dal pesante occhiale 3D che si pone, senza volerlo, come il principale e a oggi inevitabile ostacolo all’immersione totale.
Una contraddizione insanabile, che potrebbe e dovrebbe orientare l’esplorazione futura del cinema che vorrei, studiato a tavolino dai ricchi proprietari di budget. A oggi, per vivere le emozioni e le storie del cinema al cinema sembra ancora essere più utile, seducente e coinvolgente l’imperfezione, piuttosto che la perfezione.