Siamo sempre pronti a metterci dietro la lavagna con il testa le orecchie di asinello anche quando non siamo gli ultimi della classe. Ciò vale anche per il gap retributivo tra gli uomini e le donne. In base ai più recenti Eurostat, nel 2019 la retribuzione oraria lorda delle donne era, in media, nell’Ue, del 14,1% inferiore a quella degli uomini. Negli Stati membri variava ampiamente: dall’1,3% in Lussemburgo al 21,7% in Estonia. L’Italia si attestava al 4,7%. Comunque si può sempre fare meglio. “Garantire parità di condizioni competitive – disse Mario Draghi nel discorso sulla fiducia – significa anche assicurarsi che tutti abbiano eguale accesso alla formazione di quelle competenze chiave che sempre più permetteranno di fare carriera – digitali, tecnologiche e ambientali. Intendiamo quindi investire, economicamente ma soprattutto culturalmente, perché sempre più giovani donne scelgano di formarsi negli ambiti su cui intendiamo rilanciare il Paese. Solo in questo modo riusciremo a garantire che le migliori risorse siano coinvolte nello sviluppo del Paese”.
Così nei giorni scorsi la Camera ha approvato all’unanimità il progetto di legge sulla parità retributiva tra uomo e donna. Il testo, composto da sei articoli, è passato al Senato. Non sarebbe la prima volta che a Montecitorio i parlamentari si mostrano di manica larga e che, al momento di votare su provvedimenti “politicamente corretti”, non esitano a “gettare il cuore oltre l’ostacolo”. Per fortuna l’ordinamento rimane ancora bicamerale e il Senato può modificare le intemperanze della Camera. Ovviamente non sarà questo il caso del progetto di legge in esame che, per il suo alto valore etico e sociale, rispondente ai principi della Costituzione, merita un’approvazione definitiva la più sollecita possibile.
Il progetto di legge (è un testo che ne unifica altri presentati da tutti i gruppi) non ha un’impostazione organica e originale; si limita, piuttosto, a rafforzare il quadro di norme che, nel tempo, hanno regolato i vari aspetti della materia. Vi sono dei cambiamenti che riguardano la comunicazione istituzionale. Il compito di presentare al Parlamento la Relazione biennale su applicazione della legislazione in materia di parità e pari opportunità (nonché sugli effetti del Codice della parità), viene trasferito dal ministro del Lavoro all’ufficio della Consigliera/e di parità. Il motivo di questa scelta si potrebbe spiegare con la volontà di ridare prestigio a questa istituzione che negli ultimi anni è stata parecchio depotenziata, anche in termini di risorse disponibili.
Si estende l’obbligo di relazione biennale sulla situazione del personale a carico delle aziende, scendendo da 100 a 50 dipendenti. Ai fini di moral suasion si prevede la pubblicazione da parte del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, in un’apposita sezione del proprio sito internet istituzionale, dell’elenco delle aziende che hanno trasmesso il rapporto e di quelle che non lo hanno trasmesso. Il rapporto ogni due anni deve in ogni caso indicare il numero dei lavoratori occupati distinti per sesso, il numero degli eventuali lavoratori distinti per sesso assunti nel corso dell’anno, le differenze tra le retribuzioni iniziali dei lavoratori di ciascun sesso, l’inquadramento contrattuale e la funzione svolta da ciascun lavoratore occupato (anche con riferimento alla distribuzione fra i lavoratori dei contratti a tempo pieno e a tempo parziale), l’importo della retribuzione complessiva corrisposta, delle componenti accessorie del salario, delle indennità, anche collegate al risultato, dei bonus e di ogni altro beneficio in natura ovvero di qualsiasi altra erogazione che siano stati eventualmente riconosciuti a ciascun lavoratore. I predetti dati non devono indicare l’identità del lavoratore.
In caso di inottemperanza all’obbligo di presentazione e di redazione del predetto rapporto sono previste le seguenti sanzioni: se l’inottemperanza si protrae per oltre dodici mesi rispetto al termine di 60 giorni entro cui le aziende che non hanno adempiuto all’obbligo di redazione del rapporto sono tenute a provvedere, si dispone l’applicazione della sanzione, attualmente prevista invece come facoltativa, della sospensione per un anno dei benefici contributivi eventualmente goduti dall’azienda possibilità); la verifica della veridicità dei rapporti è affidata all’Ispettorato nazionale del lavoro, nell’ambito delle sue attività. Nel caso di rapporto mendace o incompleto si applica una sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 a 5.000 euro.
L’aspetto più importante riguarda la definizione del contenuto dell’atto discriminatorio. Costituisce discriminazione ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni: posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera.
Già in Legge di bilancio per l’anno in corso era prevista l’istituzione del Fondo per il sostegno della parità salariale di genere, con una dotazione di 2 milioni di euro annui a decorrere dal 2022, destinato alla copertura finanziaria, nei limiti di tale dotazione, di interventi finalizzati al sostegno e al riconoscimento del valore sociale ed economico della parità salariale di genere e delle pari opportunità sui luoghi di lavoro. Il Pnrr prevede, nelle mission dedicate al lavoro, lo stanziamento di 10 milioni per l’istituzione di un sistema nazionale di certificazione della parità di genere che accompagni e incentivi le imprese ad adottare policy adeguate a ridurre il gap di genere.
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