Il Times ha pubblicato tempo fa un articolo con la storia di due giovani genitori della contea inglese del Somerset, il 38enne Hobbit Humphrey e la 35enne Jake England-Johns, che hanno deciso di non comunicare a nessuno, e tantomeno ai parenti stretti, il sesso del loro figlio. E hanno cominciato a vestirlo a giorni alterni ora da maschio ora da femmina. Così la nonna ha potuto scoprire che era un maschio solo in occasione di un fortuito cambio di pannolino.



Le foto dell’articolo mostravano un soggetto dall’aria palesemente infelice, il che non pareva preoccupare per nulla la madre, che ha dichiarato: “Lo facciamo per proteggerlo dai pregiudizi di genere, che in gran parte sono inconsci. Quando sono rimasta incinta, io e il mio compagno abbiamo discusso di come potessimo contribuire a mitigarli e abbiamo pensato che l’unico modo per farlo fosse quello di non rivelare il sesso del bambino… Non stiamo cercando di farli diventare qualsiasi cosa. Vogliamo solo che siano loro stessi”. Ebbene, ha detto proprio così, usando il pronome they. Ma, di grazia, come farebbe il povero bimbo a essere loro stessi se non ha un’identità di partenza, come ad esempio il sesso biologico?



Se dei giovani genitori hanno le idee così confuse, è sicuramente grazie alla grande propaganda che alle teorie gender fanno non solo gli attivisti Lgbt, ma anche le grandi marche commerciali. Che oltre a vantarsi di organizzare persino corsi di gender per i figli dei dipendenti, intervengono sulla stessa forma dei loro prodotti con l’obiettivo di essere in linea con un pensiero unico sempre più di moda tra alcune élite. Persino nel mercato dei giochi per bambini.

La Mattel, infatti, creatrice della famosa bambola Barbie, ha lanciato il progetto Creatable World, così descritto da Kim Culmine, Senior Vice President di Mattel Fashion Doll Design: “Una linea di bambole gender neutral che possono essere personalizzate dai bambini. Si potrà scegliere tra la gonna, i pantaloni o entrambi, ma anche tra capelli corti o lunghi, per offrire ai bambini e alle bambine una ‘tela bianca’ su cui creare i propri personaggi. Perché i giocattoli sono il riflesso della cultura e, dal momento che il mondo continua a celebrare l’impatto positivo dell’inclusività, abbiamo sentito che era arrivato il momento di creare una linea di bambole libera da ogni etichetta”.



Ora, tutto il problema sta proprio nel promuovere il gender neutral, in quella “tela bianca”, e nell’impiego della sempre più magica parola “inclusività”, che oramai include tutto tranne che i comportamenti di coloro che seguono le leggi di natura, e che costituiscono invece la grande maggioranza della popolazione.

Secondo i principi della teoria gender, non esiste un sesso biologico, bensì il sesso che uno decide di avere (o di procurarsi) a seconda delle sue inclinazioni e del contesto in cui vive. Il che comporta essere convinti che l’uomo sia totalmente padrone di se stesso e del suo corpo. Ignorando eredità, tradizione e persino il proprio Dna.

Sebbene assomigli molto a una forma di illusione paranoide, molte grandi marche ne stanno facendo un punto d’onore, ritenendo di combattere una sacrosanta battaglia di libertà.

Ha scritto in proposito l’avvocato Elisabetta Frezza, grande esperta della materia: “Il gender porta la maschera dell’’uguaglianza’, della ‘parità’, dell’’equità’, della ‘libertà di scelta’, dei ‘diritti’, della ‘dignità umana’, del ‘progresso’, dell’’autonomia’, dell’’emancipazione o promozione della donna’, della ‘compassione’, della ‘lotta contro le violenze’, della ‘non discriminazione’ e di altri concetti altruisti, umanistici o umanitari, da cui è impossibile non farsi sedurre. Sono le formule eufoniche che trasportano il pensiero unico distillato negli slogan come quello della non discriminazione”.

Va ribadito a chiare lettere che qui non sono minimamente in discussione i traguardi raggiunti dalla comunità Lgbt in termini di rispetto e di pari trattamento per gli omosessuali sia sul lavoro che nella vita sociale. È in discussione invece un’assai pericolosa deriva provocata da un relativismo etico che si sta diffondendo a macchia d’olio.

Perché è in gioco il concetto di identità, che la teoria gender rifiuta per principio, e che per le marche invece è sempre stato – ed è ancora – un pilastro non solo del loro essere, ma anche del loro marketing e della loro pubblicità. Una chiara identità di marca è l’unico modo per differenziarsi dai concorrenti e per “fidelizzare” (come si usa dire in gergo tecnico) i consumatori. Ma se le marche per prime inneggiano alla mancanza di identità promossa dalla teoria gender, sventolando inoltre tutte insieme la stessa bandiera arcobaleno, ritengo che stiano commettendo, pur animate da buone intenzioni, un grosso errore: con gravi conseguenze per sé e per i consumatori/cittadini/esseri umani.

Senza contare che, a forza di sposare teorie che delegittimano la famiglia cosiddetta tradizionale (oggettivamente l’unica in grado di riprodurre naturalmente la specie umana) e promuovere modelli di famiglia infertili, andrà a finire che ci saranno sempre meno bambini (la rilevazione Istat del 2018 evidenzia un saldo negativo tra nascite e decessi di 180mila individui), per cui inizialmente non venderanno più prodotti per l’infanzia, e poi venderanno sempre meno per semplice mancanza di consumatori.

Ma questa non è l’unica contraddizione in cui cadono.

Oggi le marche sono innamorate della sostenibilità, soprattutto dopo il grande successo di Greta Thunberg, che anch’ella sventola una bandiera arcobaleno, come fa ogni buon ecologista. È altresì noto che gli ecologisti sono in gran parte grandi sostenitori delle teorie gender. Ed ecco la clamorosa contraddizione: per quanto riguarda il pianeta, è tutto un invocare l’amore per la natura, la protezione degli animali e della loro riproduzione per mantenere le specie, il rispetto di leggi naturali da preservare per contrastare le azioni dell’uomo, responsabile dell’inquinamento e di un pericoloso riscaldamento globale.

Gli ecologisti sostengono correttamente, ma è solo uno dei moltissimi esempi citabili, che i cuccioli di cani e gatti non debbano essere separati dalle madri prima di 4-6 mesi per non provocare loro dei traumi. Perché allora ritenere normale che i bambini nati con la maternità surrogata debbano essere separati immediatamente dalle madri che non possono nemmeno abbracciarli per un momento dopo il parto, per accelerarne il distacco?

Contraddizioni, confusioni, relativismo: è mai possibile che le marche, così affascinate dalle teorie gender ritenute molto cool – come ha ribadito il Senior Vice President della Mattel – stiano dimenticando il valore dell’identità, correndo il rischio di segare inconsapevolmente il ramo su cui sono sedute? E di perdere anche il normale buon senso, facendo inoltre perdere anche il senso del ridicolo a chi le segue, come è accaduto ai due poveri genitori del Somerset?

Da mezzo secolo lavoro per le marche cercando di aiutarle a preservarne l’identità, la peculiarità dei loro prodotti, la promozione di comportamenti sostenibili. Così mi sento in dovere di rivolgere loro un accorato appello, affinché distinguano le giustissime battaglie per la parità di genere e per la non discriminazione in base a razza, religione, sesso e attitudini sessuali, dalla diffusione di un pensiero unico che sfocia direttamente in una crescente forma di totalitarismo.

Come aveva previsto già nell’aprile del 2018 l’Economist, che è un periodico tutt’altro che conservatore, in un editoriale dal titolo “La dittatura della tolleranza”: “L’Economist ha sempre sostenuto l’idea della società aperta e continuerà a farlo. Ma ritiene che sia giusto mettere in discussione gli eccessi di alcuni movimenti sociali, perché stanno mettendo a rischio l’apertura e la tolleranza delle società in tutto il mondo. L’adesione forzata ai valori libertari può avere conseguenze pericolosamente illiberali. Un’attenzione sproporzionata a opzioni particolari può offuscare altre questioni, come la libertà individuale. Come bilanciare queste preoccupazioni con l’obiettivo di creare una società realmente tollerante è la domanda del momento”.