La direttiva Ue n. 2023/970 del 10 maggio 2023, che dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 7 giugno 2026, è volta a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne attraverso la trasparenza retributiva. Gli interventi necessari per rendere il quadro regolatorio italiano compliance rispetto alle previsioni della direttiva rappresentano una sfida per il legislatore e dovranno essere frutto di un approfondito confronto con le parti sociali e gli organismi di parità in considerazione della portata potenzialmente dirompente delle informazioni da mettere in trasparenza.
Il Global Gender Gap Report 2023 evidenzia come la strada per colmare il divario di genere sia ancora molto ripida: per raggiungere la parità di genere a livello globale dovremo attendere il 2154, quindi ben 131 anni, che aumentano a 169 se si considera la sola parità economica.
Il tema non è nuovo. Il principio della parità di retribuzione tra uomini e donne era sancito già nell’atto costitutivo dell’Ilo ed è stato poi confermato nella Convenzione C100 del 1951 sull’uguaglianza di retribuzione fra mano d’opera maschile e mano d’opera femminile per un lavoro di valore uguale e ribadito nella Convenzione C111 del 1958 sulla discriminazione in materia di impiego.
Il medesimo principio è stato accolto nel contesto euro-unitario fin dal 1957 con il Trattato di Roma ed è stato poi trasposto nel Trattato di Amsterdam del 1997 dove, all’art. 141 (ora art. 157 TFUE), è stato previsto che «ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore» (co. 1).
Tuttavia, l’applicazione del principio di parità retributiva a livello unionale si è sempre rivelata difficile; in tale contesto si inserisce la citata direttiva secondo la quale proprio le regole di trasparenza retributiva e il rafforzamento dei meccanismi di applicazione e tutela possono contribuire a ridimensionare la differenza salariale di genere.
Nella visuale del legislatore europeo, quindi, la lotta al gender pay gap passa attraverso l’abbattimento delle asimmetrie informative che rappresentano un ostacolo alla diffusione della parità retributiva e delle pari opportunità contrattuali tra uomini e donne.
La direttiva trova applicazione nel «settore pubblico e privato» (art. 2 co. 1), ai lavoratori «che hanno un contratto di lavoro o un rapporto di lavoro» (art. 2 co. 2), riguarda tutti i lavoratori subordinati, compresi i lavoratori a tempo parziale, a tempo determinato e tramite agenzia; in Italia arriva agevolmente a comprendere anche i collaboratori coordinati e continuativi e i collaboratori etero-organizzati.
L’art. 4, par. 1, della direttiva stabilisce che il datore di lavoro è tenuto ad adottare un sistema retributivo che garantisca la parità di retribuzione per uno stesso lavoro e per un lavoro di pari valore. Il concetto di “lavoro pari valore” non è di facile interpretazione tanto che la direttiva richiede che, per la valutazione del valore del lavoro, vengano applicati criteri non discriminatori relativi a «competenze, impegno, responsabilità, condizioni di lavoro riguardanti l’ambiente organizzativo» nonché qualsiasi altro fattore relativo allo specifico lavoro o alla specifica posizione. Tali criteri devono essere «applicati in modo oggettivo e neutro dal punto di vista del genere, escludendo qualsiasi discriminazione diretta o indiretta fondata sul sesso».
Quanto alla tipologia di informazioni da fornire, l’art. 5 dispone che l’oggetto delle informazioni riguarda, per i candidati, la retribuzione iniziale o l’inquadramento da attribuire alla posizione offerta e le pertinenti disposizioni del contratto collettivo applicate. Per i lavoratori in organico le informazioni previste sono relative non solo al livello retributivo individuale (art. 6), ma anche ai livelli retributivi medi ripartiti per sesso delle categorie di lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore, in più riguardano anche i criteri utilizzati per determinare la retribuzione e la progressione economica (art. 7 co. 1). Se le informazioni ricevute sono imprecise o incomplete, i lavoratori hanno il diritto di richiedere, personalmente o tramite i loro rappresentanti, chiarimenti e dettagli ulteriori e ragionevoli riguardo ai dati forniti e di ricevere una risposta motivata.
La direttiva considera un concetto ampio di retribuzione che comprende non solo la retribuzione-base, ma anche le componenti accessorie, in denaro o in natura, che i lavoratori ricevono direttamente o indirettamente dal datore di lavoro; il sistema retributivo deve essere strutturato in modo tale da permettere di effettuare una comparazione oggettiva tra lavoratori in base al valore del loro lavoro, ponderato tramite i criteri oggettivi, concordati anche con i Rappresentanti dei lavoratori.
Particolare riguardo viene quindi riservato alle Parti sociali: si valorizza la contrattazione collettiva, il dialogo sociale e il coinvolgimento degli Organismi nazionali per la parità cui è affidata la responsabilità di definire metodologie d’analisi idonee a consentire l’effettività del principio della parità di retribuzione. Sarà quindi necessario un pieno coinvolgimento delle rappresentanze aziendali e degli organismi di parità per individuare, in concreto, quali siano gli strumenti e i criteri richiesti dalla norma europea per escludere qualsiasi discriminazione retributiva, diretta e indiretta, fondata sul sesso.
Il diritto alle informazioni retributive non può però inficiare il corrispondente diritto della privacy, tanto che la direttiva esige che i lavoratori, che in forza della direttiva abbiano ottenuto informazioni diverse da quelle relative alla propria retribuzione o al proprio livello retributivo, non utilizzino tali informazioni per fini diversi dall’esercizio del loro diritto alla parità di retribuzione. Il futuro legislatore, nell’attuazione della direttiva Ue 2023/970, dovrà quindi trovare il modo per conformare gli obblighi derivanti dalla direttiva alle previsioni derivanti dal GDPR e, quindi, rispettare la privacy dei singoli lavoratori. Di converso, è necessario evitare che la conoscibilità sia aggirata da accordi di riservatezza che impediscano ai lavoratori di rendere nota la propria retribuzione, ragion per cui è imposto agli Stati membri di adottare misure funzionali ad evitare clausole contrattuali che limitino la facoltà dei lavoratori di rendere note informazioni sulla propria retribuzione.
Con riferimento alla tutela, uno dei profili più innovativi della direttiva è quello relativo alla disciplina del riparto degli oneri probatori. La direttiva all’art. 18 fissa l’inversione parziale dell’onere della prova disponendo che spetta «alla parte convenuta provare l’insussistenza della discriminazione retributiva diretta o indiretta ove i lavoratori che si ritengono lesi dalla mancata osservanza nei propri confronti del principio della parità di retribuzione abbiano prodotto dinanzi a un’autorità competente o a un organo giurisdizionale nazionale elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta». Si tratta di un’impostazione già presente nel panorama nazionale ai sensi del d.lgs. n. 198/2006, ma verosimilmente solo adesso, a seguito dell’effettiva trasparenza prevista dalla direttiva in esame, si potrà avere la concreta disponibilità dei dati, anche statistici, idonei a fungere da elemento di comparazione. La novità più dirompente riguarda, però, l’introduzione di un inversione totale dell’onere probatorio, come prevista dal secondo comma dell’art. 18, di guisa che «qualora un datore di lavoro non abbia attuato gli obblighi in materia di trasparenza retributiva» previsti dalla direttiva, sarà lui a dover dimostrare di non aver introdotto alcuna disposizione o compiuto alcun atto comportante una discriminazione retributiva diretta o indiretta.
È presto per dire quanto il meccanismo della trasparenza potrà concretamente incidere sulla parità retributiva uomo-donna, anche perché bisognerà vedere come i singoli Stati membri recepiranno la direttiva, ma è del tutto evidente come nel panorama euro-unitario si vada manifestando un inedito interesse verso la trasparenza nei rapporti di lavoro. La direttiva 2019/1152 del 20 giugno 2019 – recepita con il d. lgs. 10472022 c.d. decreto trasparenza – aveva declinato la trasparenza attraverso i “diritti di informazione” dei lavoratori riferendosi al singolo lavoratore e al suo specifico rapporto/contratto di lavoro; la direttiva 2023/970 abbandona il concetto di lavoratore come mònade e lo include nel più ampio contesto organizzativo aziendale, presupponendo una comparazione dei trattamenti economico-retributivi delle risorse umane complessivamente intese.
Occorre però sgombrare il campo da qualsivoglia dubbio circa un inesistente principio generale di parità retributiva perché la direttiva non impedisce ai datori di lavoro di retribuire in modo diverso lavoratori e lavoratrici che svolgano lo stesso lavoro o un «lavoro di pari valore», ma chiede che eventuali differenze siano ancorate a criteri oggettivi, neutri dal punto di vista del genere, privi di pregiudizi e, come tali, giustificabili.
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