Dal boss della camorra Carmine Alfieri a Matteo Messina Denaro, trent’anni contro la criminalità per il generale Pasquale Angelosanto. Il comandante dei Ros è giunto a fine mandato e ha ripercorso la sua carriera spesa quasi tutta nei reparti anticrimine e territoriali dell’Arma ai microfoni del Corriere della Sera. L’esordio non può non essere legato alla cattura di Alfieri, indimenticabile: “Lo prendemmo l’11 settembre 1992, e sebbene fosse ricercato — da nove anni — solo per il lotto clandestino, sapevamo che era diventato il capo della camorra vesuviana. Dopo aver vinto, con la Nuova Famiglia, la guerra contro la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo”. L’arresto fu possibile grazie a Pasquale Galasso, suo vecchio alleato arrestato nel maggio del 1992 che pensava di essere stato tradito da Alfieri, avendo avviato grandi investimenti dai quali credeva volessero escluderlo: “Si vendicò indicandoci un possibile rifugio nel comune di Scisciano, in un contesto criminale che già conoscevamo bene – la ricostruzione di Angelosanto – S’era nascosto in un bunker sotterraneo, e quando cominciammo a rompere il pavimento con le mazze da carpentiere sentimmo la sua voce che chiedeva di smettere”.



Il generale Angelosanto a fine mandato

All’arrivo nel Ros per comandare la sezione Catturandi si lavorava secondo il metodo Dalla Chiesa, seguito ancora oggi, ha proseguito Angelosanto: “Alcuni ufficiali nostri comandanti e i marescialli che avevano lavorato con il generale ai tempi del terrorismo, ci fecero da maestri”. Poi sul metodo sopra citato: “Studio approfondito del contesto, per inquadrare il singolo delitto nell’ambito in cui è maturato. E tecniche investigative applicate sul territorio: osservazione, controlli e pedinamenti, a cui si sono aggiunte le intercettazioni e altre attività tecniche. Solo così, nel terrorismo come nella criminalità organizzata, si riesce a venire a capo degli omicidi e a prendere i latitanti. Ci vuole tempo e tanta pazienza, ma alla fine i risultati arrivano”. Poi la camorra e le Brigate Rosse, fino a Cosa Nostra, con Matteo Messina Denaro in cima alla lista dei ricercati. Poi la scoperta del pizzino decisivo a casa della sorella e l’arresto, lo scorso gennaio: “Come ho vissuto quel mese e mezzo? Male. Con la continua paura di commettere errori. Persino durante la messa di Natale non potei evitare di pensare alle mosse da seguire per non farci sfuggire il latitante. Ci stavamo avvicinando, ma bisognava evitare il minimo sbaglio. Negli ultimi tre giorni avevamo quasi la certezza che dietro il nome di Andrea Bonafede ci fosse Messina Denaro, ma finché lui non ha ammesso di esserlo non sono stato tranquillo”. Poi la gioia per l’obiettivo raggiunto: “Una soddisfazione indescrivibile, insieme all’improvviso calo di tutta la tensione accumulata”.

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