COME È MORTO IL GENERALE CARLO ALBERTO DALLA CHIESA

A 40 anni dal vile attentato in via Carini a Palermo, la miniserie Rai “Il Nostro Generale” fa riscoprire al pubblico come è morto il Generale Alberto Dalla Chiesa, la sua storia e il simbolo di una duplice lotta efficace alle Brigate Rosse e alla Mafia di Cosa Nostra. In attesa della prima puntata in onda questa sera su Rai1 (e disponibile in streaming su RaiPlay), ripercorriamo quelle ore terribili del 3 settembre 1982 che portarono alla morte il Generale Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo (morto dopo 10 giorni di agonia in ospedale, ndr). L’attentato al Generale, divenuto prefetto di Palermo dopo aver contribuito a sconfiggere le BR negli Anni di Piombo a Milano, venne pianificato da Cosa Nostra, in particolare modo dalla cosca dei Corleonesi proiettata nella lunga escalation di sangue e potere che contraddistinse gli anni Ottanta e Novanta.



Attorno alle ore 21 del 3 settembre il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa assieme alla moglie (alla guida della Autobianchi A112 beige) si recarono a cena verso Mondello: l’auto del Generale dei Carabinieri era seguito da un’Aletta guidata dall’agente della scorta Russo. Circa quindici minuti dopo, mentre erano di passaggio in via Isidoro Carini, una motocicletta guidata – venne ricostruito dai processi con condanne definitive negli anni successivi – da Giuseppe Lucchese assieme a Giuseppe Greco detto “Scarpuzzedda” affiancò il mini convoglio di Dalla Chiesa. La prima scarica di fucile d’assalto AK-47 venne lanciata contro la coppia Dalla Chiesa, mentre contemporaneamente una BMW 518 guidata da Calogero Ganci con Antonio Madonia raggiunse l’auto del Generale e aprirono il fuoco sempre con un AK-47. Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie morirono sul colpo dopo trenta pallottole ravvicinate.



ATTENTATO MAFIA A CARLO ALBERTO DALLA CHIESA: CONDANNATI E MANDANTI

Dopo l’attentato compiutosi in pochissimi secondi, l’auto e la moto usate nel delitto di Via Carini vennero portate in un luogo isolato e lì date alle fiamme: i 4 killer di Carlo Alberto Dalla Chiesa, Emanuela Setti Carraro e dell’agente Russo (morto il 15 settembre in ospedale) vennero poi portati via da tre auto guidate rispettivamente dai boss Raffaele Ganci, Gaetano Carollo e Vincenzo Galatolo. Inviato a Palermo l’indomani dell’attentato contro il sindacalista Pio La Torre, la Mafia di Cosa Nostra temeva probabilmente che il Generale Dalla Chiesa potesse interferire con la crescita degli affari criminosi in Sicilia, così come aveva sconfitto le Brigate Rosse lavorando per anni al Nord. Secondo quanto emerso dai processi, pur nella persistenza di ombre intorno alla matrice dell’attentato, la morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa sarebbe stata decisa da Cosa Nostra nel contesto delle dinamiche interne ai gruppi mafiosi dell’epoca: in particolare nella determinazione della sfera corleonese di neutralizzare un potenziale ostacolo alla sua ascesa nel territorio.



Il Delitto Dalla Chiesa venne giudicato all’interno del Maxiprocesso di Palermo, voluto con forza dai giudici anti-mafia Borsellino e Falcone: il processo si chiuse con le condanne in via definitiva a carico dei killer, esecutori materiali di un crimine dalla grammatica atroce, ovvero Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo, Nino Madonia (con i collaboratori di giustizia Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo). Condanne anche a carico dei boss ritenuti mandanti della strage di via Carini: Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Le ombre su come è morto Dalla Chiesa rimangono per le motivazioni dietro l’attentato: il pentito di Mafia Tommaso Buscetta, ad esempio, mise in relazione l’attentato al Generale con quello del giornalista Carmine Pecorelli: secondo il collaboratore sarebbe stato messo a conoscenza dal Generale Dalla Chiesa dell’intero memoriale di Aldo Moro. I giudici della corte d’assise nella sentenza di condanna dichiarano: «Si può, senz’altro, convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale».