Ci sono generazioni e generazioni.

Alcuni anni fa il giornalista televisivo Jacopo Volpi coniò l’espressione, ripresa dal titolo dell’omonima canzone del 1991 degli Stadio, “Generazione di fenomeni”, usata nel gergo pallavolistico per indicare il gruppo di giocatori che costituirono l’ossatura della nazionale italiana maschile, considerata negli anni 90 una delle formazioni più forti di tutti i tempi.



La generazione che comprende i nati dal 1995 al 2010 è stata chiamata, a seguito di un contest online sponsorizzato da Usa Today per scegliere il nome della generazione successiva ai Millennials, “Generazione Z”. La sua caratteristica principale è il diffuso utilizzo di Internet quasi sin dalla nascita. I suoi membri sono considerati particolarmente avvezzi all’uso della tecnologia e dei social media, che incidono per una parte significativa nel loro processo di socializzazione.



Da quando ha avuto inizio l’emergenza coronavirus, abbiamo iniziato tutti, e dico tutti, ad apprezzare l’efficacia dispositiva del Dpcm, un provvedimento del Governo che è sempre esistito ma che, in questo particolare momento, sta trovando grande utilizzo. Un provvedimento che incide in maniera determinante sulla vita di tutti i giorni.

Proprio ieri ho sentito uno scugnizzo di un quartiere popolare napoletano chiedere alla mamma se fosse più grave fare uno scippo o fare attività motoria senza mascherina. E la donna, indaffarata ed infastidita, rispondere di non sapere neanche cosa fosse quella maledetta attività motoria, ma di iniziare a correre se no gliele avrebbe suonate di brutto con o senza mascherina. E così il ragazzino ha iniziato a correre, rigorosamente senza mascherina. Un avvocato che passava di lì pontificava dicendo che pare a quella velocità si tratti di attività sportiva, quindi, non punibile.



Allo stesso modo impazzano sul web battute più o meno esilaranti sulla “raccomandazione” di non ricevere più di 6 persone a casa. Altra simpatica uscita di qualche buontempone del Comitato tecnico-scientifico, si dice ancorata al numero del servizio di piatti più comunemente utilizzato dalle famiglie italiane.

Se non ci fosse da ridere, verrebbe da piangere.

Un atto normativo che contiene una raccomandazione ovviamente senza alcun valore giuridico né tantomeno alcuna sanzione. Una specie di consiglio, di monito.

Ed intanto i più giovani si interrogano su cosa si può o non si può fare e vanno avanti a forza di Dpcm. Praticamente stiamo facendo crescere la generazione Dpcm.

I decreti ministeriali sono atti amministrativi emanati dal presidente del Consiglio dei ministri. Formalmente sono atti di secondo grado, poiché nella gerarchia delle fonti del diritto sono di rango inferiore rispetto alla legge.

Per questo la gestione dell’emergenza sanitaria attraverso provvedimenti amministrativi unipersonali e autoritativi fa storcere il naso a molti costituzionalisti ed esteti del diritto.

Il contenuto dei Dpcm, in genere, riguarda questioni tecniche, sia dettagliate che generiche, relative ad un settore specifico, ma ciò non toglie che ci possono essere anche dei Dpcm di contenuto particolare o discrezionale. Il Dpcm deve essere prescritto dalla legge, che ne determina i principi direttivi generali, e per la sua emanazione spesso vengono coinvolti esperti del settore, tecnici e studiosi della materia. Di qui il famoso Comitato tecnico-scientifico.

Il Governo italiano, a ciò autorizzato dal Parlamento, ha scelto di gestire l’emergenza epidemiologica con questo strumento normativo più snello, ma meno democratico. In realtà, lo strumento normativo più idoneo allo scopo e più appropriato sarebbe stato il decreto legge.

Le differenze tra il Dpcm e il decreto legge sono molte, per quanto riguarda l’iter di formazione e discussione, le forze politiche coinvolte e l’efficacia. I decreti ministeriali, senza dubbio, hanno il merito di essere rapidi e quindi particolarmente adatti alle situazioni di emergenza, ma dall’altro lato non coinvolgono il Parlamento, e quindi sono espressione della volontà della sola maggioranza politica. Invece, il decreto legge assicura il dialogo e la collaborazione con l’opposizione, e, da questo punto di vista è più garantista rispetto ad un Dpcm. Questo è il motivo per cui molte forze politiche si sono opposte all’utilizzo massivo dei decreti ministeriali con i quali il dialogo democratico è ridotto, se non azzerato.

Il decreto legge, invece, pur partendo da un atto del Governo, deve essere convertito in legge dal Parlamento entro 60 giorni, a pena di decadenza. Inoltre entrambe le Camere possono proporre emendamenti modificativi o aggiuntivi e stimolare il coinvolgimento dell’opposizione, che, altrimenti, non potrebbe partecipare alla formazione di decisioni delicate e  di massima importanza per il Paese. Presupposto del decreto legge, infatti, è una situazione estremamente urgente, come catastrofi naturali o epidemie.

Sostanzialmente quindi il Dpcm è uno strumento populista, esalta il suo autore e sopprime le minoranze. Sembra una questione di forma, invece è pura, autentica, cinica sostanza.

Non so perché ma mi vengono alla mente dei versi del salmo della Bibbia del Buon pastore. Ma il problema dell’utilizzo smodato di Dpcm è anche un altro.

Una volta si diceva “fatta la legge trovato l’inganno”. Oggi sono cambiati i tempi ed il discusso modo di legiferare attraverso Dpcm, ma non la sostanza. Anzi, è diventato ancora più facile trovare il modo per eludere i divieti, creando disparità poco comprensibili e fastidiosi, ingiustificati privilegi.

Purtroppo spesso si crede che facendo disposizioni più dettagliate si disciplini meglio la materia. Nulla di più sbagliato. Prendiamo ad esempio le “norme” sul calcetto nell’ultimo Dpcm del 13 ottobre.

Già prevedere disposizioni differenziate per i calciatori professionisti, dilettanti ed amatoriali è una bella forzatura. Immagino la motivazione posta a fondamento della bizzarra regolamentazione, una volta si diceva la “ratio”, la ragione giustificatrice.

Certo si sa che i calciatori professionisti sono più atletici, più forti ed aitanti, ma il caso Ronaldo insegna che purtroppo questo non li mette al riparo dal pericoloso virus.

Evidentemente allora non deve essere questa la vera giustificazione, ammesso che ce ne sia una. Infatti, poiché si tratta di norme a tutela della salute, di tutti, calciatori compresi, ogni altra eventualmente discutibile motivazione, posta a fondamento della distinzione per categorie di calciatori impegnati, non sarebbe ragionevole.

Si sarebbero potute adottare diverse soluzioni, se davvero l’interesse da tutelare fosse stato quello della salute. Ad esempio fare tamponi e controlli periodici o cose del genere. Che differenza c’è tra un calciatore amatoriale che si fa un tampone a settimana ed uno professionista che se lo fa quando gli dicono di farlo?

E quando le norme non sono ragionevoli, è più agevole trovare l’inganno.

Sembra che, ragionando tra le pieghe e le contraddizioni del Dpcm, un’associazione sportiva di Napoli abbia trovato il modo per continuare a far giocare i suoi clienti. Facendo i tamponi, penserete voi, o sottoponendoli a controlli precisi ed accurati. No, nulla di tutto questo. Basterà associarsi, diventare socio della struttura per diventare magicamente immuni. Altro che app. Sì, perché, come si legge nella nota diffusa con toni trionfalistici di chi ha scoperto l’uovo di Colombo, la partita è salva.

Il Dpcm, infatti, autorizza le partite e gli allenamenti per coloro che sono regolarmente tesserati ed iscritti presso un’associazione, a sua volta affiliata ad un’ente di promozione sportiva.

La Asd interessata, in qualità di gestore della struttura, è regolarmente affiliata ad un ente di promozione sportiva riconosciuto dal Coni.

Per permettere ai suoi affezionati clienti di partecipare alla partitella settimanale, ha deciso addirittura di assumersi  anche il costo di affiliazione dei primi partecipanti. Ognuno poi potrà portare gli amici facendoli affiliare.

Unico piccolo adempimento sarà che, una volta sul campo, e solo per una volta per tutto l’anno, i partecipanti dovranno compilare un modulo di richiesta di adesione all’associazione, dove richiederanno di diventare soci per l’attività di allenamenti e partite.

Rimarrà invece obbligatorio, ad ogni partita, compilare un elenco presenze.

A quanto sembra tutte le altre associazioni sportive si stanno muovendo in tal senso.

È vero i napoletani sono geniali, ma questo Comitato tecnico-scientifico sembra fare acqua da tutte le parti.

Però almeno per ora la partita di calcetto è salva. Almeno quella.