Un’esplosione di sensi e vertigine creativa tra fasi di studio e ricognizione alla ricerca di una strada musicale definita. “Selling England By The Pound” a firma Genesis, disco icona nella sterminata cronologia del rock, immagine saliente della grandiosità sonora degli anni ‘70 incentrati sulla fusione di stili. Da una parte il sinfonico britannico, dall’altra l’inizio del suo superamento verso l’ipotesi elettronica e relative vie di fuga senza tempo (definite a partire da “The Lamb Lies Down On Broadway” del 1974 fino alla modernità ibrida di “Duke” del 1980).
L’esito che ne deriva sembra incarnare più o meno inconsciamente un’irresistibile contraddizione al suo interno. A fasi transitorie interminabili a suon di abbozzi di session a creatività intermittente, fanno da contraltare la prima melodia di presa radiofonica, un cenno di ballad allo stadio ancora naïf e quel vertice di intuizione che racchiuso in soli tre lunghi brani di durata tra i nove e i dieci minuti, basta a definire e coprire le distanze di uno dei lustri più importanti della musica.
È così che dal lavoro del quintetto storico (Tony Banks, Phil Collins, Peter Gabriel, Steve Hackett, Mike Rutherford) si sviluppa un disco che rimane nella memoria collettiva pur mostrando una doppia faccia talora dal fascino largamente incoerente. Dancing With The Moonlit Knight, Firth of Fifth e The Cinema Show a rappresentare da sole in poco più di complessivi venticinque minuti un caleidoscopio di lascito vittoriano e reazione simbiotica tra rock e classica. The Battle of Epping Forest, After The Ordeal e More Fool Me (vero esordio di Phil Collins alla voce solista dopo il cameo di For Absent Friends) a tradirne la deriva fragile e quasi fuori contesto. Nel mezzo I Know What I Like, prima sortita radio-friendly della storia della band con tanto di piccola consacrazione come singolo piazzato a ridosso della top 20 britannica e, negli anni a venire, vero e proprio rito corale e liberatorio tra r’n’r e inno agonistico piazzato a conclusione dei concerti.
L’album – scaturito da un fitto e snervante periodo di prove condotte tra la Una Billing’s School of Dancing di Shepherd’s Bush e la casa di un medico a Chessington – vede la luce in tutta probabilità il 5 ottobre 1973 (il conflitto tra due diverse fonti e informazioni sparse fanno decisamente preferire questa data a quella del 28 settembre o del 13 ottobre) con la registrazione e coproduzione di John Burns presso gli Islands Studio di Londra.
Riassunto così – al netto della full immersion – sembra tutto abbastanza lineare ma il risultato viene portato a casa dopo varie fasi di riflessione e di parziale stallo, partendo da una base solida ma rappresentata da soli tre brani sui quali il gruppo si trova a lavorare, senza reperire nel breve periodo altri spunti per estendere la scrittura.
“Quando ci riunivamo per scrivere – ricorda Banks – non necessariamente componevamo tutto in un colpo solo e a volte – in particolare in questo album – eravamo un po’ bloccati a livello di idee, tanto che abbiamo usato due o tre cose che avevamo già. Tra queste un riff che Steve ci aveva fatto sentire: lo sviluppammo e divenne “I Know What I Like”, una cosa abbastanza semplice ma di forte atmosfera. Io avevo tre brevi pezzi già pronti, che nelle mie intenzioni sarebbero dovuti andare in tre canzoni diverse. Ma probabilmente gli altri preferivano incanalare le mie creazioni in una sorta di ‘bidone di Banks’, e così “Firth of Fifth” nacque semplicemente legando insieme i tre frammenti nel modo migliore. Per il resto non c’era molto altro, a parte il riff che divenne la prima parte di “Battle of Epping Forest”. Ci impegnammo per un po’ alla ricerca di altro materiale ma per un lungo periodo finimmo col suonare solo questi tre pezzi ogni giorno, lavorandoci sopra fin troppo, particolarmente su Epping Forest, che conteneva decisamente troppe idee”.
Ma una volta trasferiti armi e bagagli presso la casa privata in Chessington, la situazione si sblocca e gran parte del lavoro viene a completarsi con gli altri due colpi da maestro assestati a stretto giro. “So che alcuni lo hanno definito un disco difficile da registrare – precisa Collins – ma io non lo ricordo così. A Chessington tirammo fuori “Cinema Show” e ”Dancing With The Moonlit Knight”. Quest’ultima era nata probabilmente come un brano strumentale tra me e Steve: stavo iniziando a conoscere la Mahavishnu Orchestra, quindi cercavo di mettere strane ritmiche dappertutto e di fare qualunque cosa mi fosse consentita”.
Il disco prende così forma definitiva. Archiviato il periodo delle debordanti copertine di Paul Whitehead, i Genesis si avvalgono dell’opera di Betty Swanwick, signora inglese che pare fuoriuscita da un personaggio dei romanzi di Agata Christie, recandosi alla Royal Academy e dalla stessa autrice del dipinto “The Dream” per ottenerne una parziale modifica idonea a rappresentare gli affondi sociali del titolo dell’album. E proprio il titolo ideato da Peter Gabriel (preso dal manifesto del Partito Laburista inglese e traducibile con “Vendesi Inghilterra un tanto al chilo”) va a scolpire le tematiche affrontate all’inizio e alla fine dell’album dal cantante, in Dancing With The Moonlit Knight e nella sua breve ripresa in Aisle of Plenty.
“Stava crescendo la nostra confidenza – nota Gabriel – e in questa traccia che avevo cominciato a scrivere cercai di tirare fuori un riferimento folk, nel tentativo di preservare un po’ di ‘englishness’. Nella parte introduttiva, in particolare, volevo catturare qualcosa che facesse riferimento più a Enrico VIII che alla canzone americana”.
Nel resto del disco storie – firmate anche da Banks e Rutherford – che raffigurano in forma epica il corso naturale e inesorabile dell’esistenza attraverso l’elemento dell’acqua, il raffronto tra desiderio amoroso mitologico e contemporaneo, il prosaico quotidiano delle lotte di quartiere.
Registrazione e produzione sono quanto di meglio il primo lustro dei ’70 possa offrire, con la prima resa pienamente degna e rappresentativa di quello che andrà a identificare nel corso degli anni i Genesis come maestri delle dinamiche. Che significa graduale dismissione delle sonorità “motorizzate” basso/chitarra/batteria tipiche di molte pubblicazioni dal suono più pionieristico del periodo, non prive di fascino ma troppo legate alla loro epoca, in favore di un insieme dalle geometrie più dense e calibrate.
La scrittura afferra uno dei suoi punti più alti, confermati nel tempo e ricorrenti nella storia e nello stesso evolversi della formazione della band. C’è la musicalità inviolata di Firth of Fifth – anatomia sensibile della cifra esecutiva del tastierista/regista del suono Tony Banks – che unisce ai citati tre frammenti un memorabile preludio pianistico di un minuto, ripreso poi al synth nel cuore della dilagante sezione strumentale che gioca sull’equazione tra impeto acquatico e corso esistenziale.
“C’è qualcosa di religioso nella famosa introduzione di Tony – osserva Hackett – E’ quasi un gospel, un incrocio fra il blues e la musica classica”.
Un’alchimia di impressionismo e sensorialità che fa a lungo scuola fuori e dentro la fisionomia sonora del gruppo, con la non meno celebre chitarra elettrica di Steve Hackett che interpreta e svaria in maniera magistrale su una delle modulazioni armoniche scritte da Banks.
C’è il variegato melange di Dancing With The Moonlit Knight che gioca di fino tra l’archetipo dell’intimismo di grande respiro alla Gabriel e le suggestioni strumentali del resto della band guidata dal magnetico fraseggio di Hackett.
E per non farsi mancare nulla una The Cinema Show che rompendo il delicato equilibrio del suo incipit acustico, riporta al centro della scena l’estetica elettrica di Banks – Collins – Rutherford, trio di lotta e di governo interno al quintetto, ascendente della singolare intesa maturata nel seguito della decade che porterà i Genesis in formazione a tre a “Duke”. Le antitesi ritmiche di Collins, le rifiniture a rimbalzo di Rutherford, i traccianti d’autore di Banks che con l’introduzione in quest’album del synth analogico, dà impulso alla sperimentazione che porterà nei primi anni ‘80 questi tre brani e il singolo I Know What I Like nella dimensione atemporale di rivisitazioni centrate sul mostruoso tiro di gruppo e l’essenza trasparente delle timbriche.
La sezione per così dire critica e altalenante dell’album, vede una successione di spunti estemporanei che in realtà finiscono per confermare lo stato di grazia del collettivo, come le aperture finali di The Battle of Epping Forest precedute dal serrato gioco verbale di Gabriel comune alla bellissima chiusura di Aisle of Plenty, dove la band, riprendendo il tema iniziale di Dancing With The Moonlit Knight, si placa con maestria seguendo il flusso della rassegna consumistica cantata e recitata dal frontman con un sentore tra il grottesco e il drammatico.
Un album dal fascino ancora vivo e seducente la cui epica contemporanea e respiro inconfondibile si avvalgono di sottigliezze e scarti mirati tra il compiuto e l’incompiuto, l’azzardo personale e la solidità dell’insieme.
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