Geneviève Lhermitte salì alla ribalta della cronaca a febbraio del 2007 per aver massacrato i suoi cinque figli. Il nome della donna è tornato d’attualità in queste ore, in quanto la stessa ha chiesto ed ottenuto l’eutanasia. Era il 28 febbraio di 16 anni fa quando Bouchaib Moqadem, rientrando dal Marocco, tornò a casa dalla moglie Genevieve a Nivelles, in Belgio, trovando una scena straziante: la donna aveva strangolato e accoltellato alla gola i loro cinque figli di 3, 7, 10, 12 e 15 anni. Geneveve cercò a sua volta di uccidersi con una coltellata al petto, senza riuscirci.
Martedì scorso, esattamente a 16 anni dalla data dei tragici eventi, Geneviève Lhermitte ha ottenuto l’eutanasia presso l’ospedale Léonard de Vinci di Montigny-le-Tilleul, come si legge sul sito del Corriere della Sera. Secondo una legge del 2002 del Belgio, l’eutanasia è autorizzata a porre fine non soltanto ad una sofferenza fisica ma anche psichica, basta che sia «costante, insopportabile e ineliminabile», e la donna che ha ucciso i suoi cinque bambini ha manifestato la sua volontà «in modo ragionato e ripetuto», di conseguenza è stata aiutata a morire. Solo dopo il tragico assassinio si scoprì una verità fatta di momenti molto buiu e sconvolgenti. Genevieve era cresciuta in una famiglia anaffettiva, dopo di che era rimasta incinta nel 1992 e aveva avuto una depressione post parto. La donna abbandonò il lavoro e così anche il marito, e la famiglia era di fatto mantenuta dal dottor Michel Schaar, il padrino dei cinque bimbi.
GENEVIÈVE LHERMITTE, LA FIGURA CONTROVERSA DEL MEDICO SCHAAR
Una figura, quella del medico, che come scrive il Corriere della Sera è sempre rimasta ambigua fra un uomo di cuore e una persona invadente. Nella lettera d’addio Geneviève Lhermitte scriveva: «Non c’è soluzione al problema. Ho preso la decisione di andarmene con i miei bambini, molto lontano, e per sempre. Michel Schaar è un farabutto chi mi ha rovinato la vita, mi ha rubato l’intimità con i miei figli e mio marito. Me ne sono andata dalla casa dei miei genitori e sono piombata da un inferno a un altro».
La donna, durante il processo ha raccontato di violenze subite dal marito, e di essere costretta a vivere reclusa, accuse sempre rimandate al mittente. Dopo l’ergastolo la Lhermitte aveva ottenuto la semi-libertà e il ricovero in una clinica psichiatrica e lo zio André l’accoglieva a casa nei fine settimana: «Cercavo di non pensare a quello che aveva fatto – spiegava – volevo renderle la vita più serena possibile, dovevo farlo, per umanità. Ma non era facile neanche per me. Vagava per la casa, faceva una passeggiata, cenavamo assieme. Ha scontato la sua pena mille volte nella testa, la gente deve capire. Ma non le era più possibile vivere».