Da nemico ad alleato? Temuta e combattuta, la rivoluzione tecnologica digitale simboleggiata dallo smartphone, offre ai genitori però anche un inaspettato supporto alla loro missione educativa. Riscuotono un incredibile successo le App di controllo parentale in remoto: negli Usa sono scaricate da milioni di genitori. Boomerang, Locategy, Family Times, Life360 sono alcuni dei software di tecno-sorveglianza in grado di riferire ogni singolo movimento del minore. Può essere utilizzata anche nella versione più soft attivando la funzionalità di geofencing, letteralmente recinto elettronico, con cui si delimita un’area riferita agli spostamenti abituali del minore mentre l’allarme scatta unicamente quando vengono oltrepassati i confini.



Questi strumenti assimilabili alla geolocalizzazione offerti da servizi come “Trova il mio iPhone”, sono arricchiti da altre applicazioni di monitoraggio più invasive per vigilare con chi parla, tracciare o inibire l’attività online, financo registrare le conversazioni o ricevere un resoconto che estrae le parole “insidiose” per cogliere meglio la natura dello scambio. In un’epoca in cui la genitorialità è in crisi e l’autorità parentale inficiata, servizi di geolocalizzazione evoluti in app spia, in commercio a partire da 15 dollari, è sempre più spesso presente sullo smartphone di padri e madri. Si contano 18 milioni di utilizzatori attivi per la sola app Life360. Viceversa, il fenomeno è diventato la bestia nera degli adolescenti che inondano i loro social con meme di avvertimento e condividono dritte e consigli per aggirare quest’insidia. Non solo informatore, queste App prevedono anche funzionalità di soccorso, per esempi, il pulsante Sos.



Se siamo arrivati al punto che la naturale supervisione di un genitore evolva in occhiuto implacabile controllo tecnologico praticato proprio dagli stessi cittadini che contestano la Democrazia della Sorveglianza in cui scivolano le stesse società liberali, è perché stiamo vivendo una crisi educativa? Lo abbiamo chiesto ad Antonio Polito editorialista del Corriere della Sera, saggista e autore di alcuni libri sulla famiglia e uno in particolare sul rapporto tra genitori e figli (“Riprendiamoci i nostri figli”, Marsilio Editore).

«O piuttosto perché ci stiamo adeguando a queste tecnologie – risponde Polito, padre di tre figli, di cui i due più giovani prossimi ai dieci anni ai quali ha strenuamente rifiutato di concedere lo smartphone -. Intanto le tecnologie condizionano i comportamenti, inducono a mutamenti nei costumi, è sempre stato così, sia a livello generale, così come a quello familiare. Teniamo presente che l’uso intensivo di queste tecnologie ancor più che riflettere una crisi educativa riflette una crisi genitoriale. Nel senso che i genitori si sono convinti che il loro ruolo sia quello di prevenire e rimuovere ogni ostacolo sulla strada dei figli con una sorveglianza 24/24 dall’alto. Ora la tecnologia consente loro di metterla in pratica facilmente da remoto».



Quest’ansia di controllo e prevenzione non è comunque insita nel Dna di un genitore o è figlia della nostra epoca?

Indubbiamente riflette i cambiamenti odierni. Innanzitutto, la riduzione del numero dei figli. Viviamo nel periodo del figlio unico il quale, più ancora che una persona, rappresenta un progetto sopra il quale c’è un investimento, anche grosso, che porta all’iperprotettività. Un’altra conseguenza dell’attuale piramide demografica è che questi figli non hanno fratelli, pochissimi cugini, quindi viene meno anche quella vigilanza reciproca tra coetanei. Oggi si cresce in maggiore solitudine ma in una piazza, quella virtuale, molto più ampia rispetto al cortile sotto casa.

Ieri ci struggevamo come genitori della dipendenza dei figli allo smartphone, al tablet. Oggi siamo noi a infilare loro un guinzaglio digitale. Rispecchia la maggiore difficoltà della missione dei genitori oggi?

Il ragionamento di molti genitori ideologicamente restii a dare al figlio piccolo un device elettronico ma che poi cedono, è la giustificazione: se gli attacco una piastrina elettronica, posso stargli vicino, seguire cosa fa…

Dieci anni è la barriera che, scrive nel suo libro, si è fissato per dare il primo device digitale ai figli. La pressione anche quella fuori dalla famiglia sarà forte. Che cosa scarteranno domani come regalo di compleanno?

L’ipod perché è un passaggio ulteriore, mediano. È in tutto e per tutto simile alle funzioni di un smartphone ma senza scheda telefonica quindi posso messaggiare ma solo in presenza di wifi. Ho installato anche un software che consente di limitare il tempo online, registrare i dati di navigazione, filtrare i siti.

Quindi sì al custode digitale, no al chip elettronico?

Diciamo che non devo ancora confrontarmi con estenuanti richieste di indipendenza da parte dei miei figli, ma confesso una mia generale contrarietà alle app invasive. Sento che piazzare un tag sui figli sia una grave mancanza di fiducia. Non è il mondo giusto di impostare un rapporto.

E chissà quali effetti psicologici sui giovani adulti di domani?

La cosa è già è stata studiata. Negli Stati Uniti la prima generazione Facebook è arrivata alla laurea e dalle ricerche emergono delle persone più fragili, meno sicure di sé. Dobbiamo accettare un certo rischio educativo. I vantaggi di instaurare un rapporto di fiducia con i figli sono molteplici. Loro avvertono di essere considerati più adulti e che stanno guadagnando il nostro rispetto. Inoltre, se c’è fiducia reciproca, c’è anche qualche probabilità che si confidino in un momento di difficoltà. Infine, anche loro sentono l’impegno delle loro scelte perché non c’è sempre qualcuno che può intervenire per correggere o prevenire. È un allenamento a scegliere che è un allenamento alla vita. Sono molto contrario a tenerli eterni bambini, devono sentire di essere persone la cui fiducia è meritevole di essere conquistata.

Tra il (legittimo) tener d’occhio l’educazione del figlio e il pedinare e origliare tutte le sue attività, c’è di mezzo anche una forma di immaturità di genitori?

Certo, in realtà i genitori giovani sono già figli di questa situazione.

Nel libro si parla di ignavia educativa. Queste app, usate prima come baby sitter poi come body guard e in generale le tecnologie digitali, hanno qualche responsabilità in questo?

Non mi metterei a lamentarmi della tecnologia. È un elemento fondamentale, costitutivo dell’habitat. Anzi, bisogna proprio scrollarsi di dosso questo atteggiamento di rassegnato catastrofismo: tanto non si può fare niente… Piuttosto bisogna ricostruire uno stile educativo adatto all’epoca digitale, non è facile ma si può fare. Prima c’era una famiglia di 4 bambini con i nonni, ora c’è un nucleo di tre persone con lo smartphone.

Stile educativo condizionato dalla tecnologia ma anche da una demografia trasformata?

Esatto, proprio la demografia è un elemento centrale con un deciso sopravvento sulla tecnologia. La demografia ha cambiato cose fondamentali. Qualcuno ha fatto notare che perfino il concetto di “fraternité”, valore chiave della Rivoluzione Francese, non si può applicare in famiglie mononucleari con un solo figlio. Come si impara il concetto di fraternité, come si assimilano quei rudimenti di equità sociale quando nell’amministrazione della giustizia nella convivenza familiare non si sperimenta come si dividono le responsabilità, come si ripartiscono i doveri, come si distribuisce il tempo dei genitori tra i fratelli? Anche la compresenza di più generazioni impatta. Questi figli senza fratelli ma che hanno 4 nonni, un bisnonno e così via, finiscono inevitabilmente al centro dell’attenzione di tanti adulti, si assiste quasi a un’idolatria in una società con pochi figli.

Queste app danno un senso di sicurezza ai genitori, ma non sollevano tuttavia un dilemma sulla privacy?

Premesso che il concetto di privacy come l’abbiamo conosciuto storicamente è finito, morto, mai come adesso è oggetto di norme. Quindi non si può escludere, un domani, una class action dei giovani spiati o di quelli che loro incontrano verso questi genitori in stile orwelliano.

Dedica il libro, tra gli altri ai protagonisti di due tragiche storie di cronaca. Secondo lei la tecnologia di sorveglianza può servire a prevenire situazioni di disperazione, di dipendenza?

Per impedire che tuo figlio si fumi uno spinello davanti a scuola, è difficile farlo con la tecnologia. Per evitare che se vergogni una volta scoperto fino al punto di buttarsi dalla finestra, è difficile riuscirci con la tecnologia. Per curare la disperazione di un figlio perché è stato rimproverato per i brutti voti a scuola, è difficile che risolverlo con la tecnologia. I device vengono invece spesso usate come strumento punitivo, in modo ricattatorio. Ti tolgo lo smartphone è un po’ come dire ti levo il pane. Mi fa venire in mente un’osservazione di Monsignor Fisichella il quale, durante un intervento se le tecnologie andassero intese come uno strumento usato bene o male, disse che le tecnologie non sono da considerarsi uno strumento, bensì una cultura. Perché condizionano il modo in cui facciamo le cose, ci comportiamo, parliamo. Cambiano la prospettiva.

I giovani vivono oggi in un mondo in cui le cose che contano per loro sono completamente diverse da quelle che contano per i genitori, e ciò che è importante fuori dalla famiglia non coincide con ciò che importa alla famiglia. Crede che sia ancora possibile riannodare i fili?

Non so se è possibile, ma bisogna farlo. È il nostro dovere.

(Patrizia Feletig)