La legge è la legge, non si discute. E dunque, presto o tardi, arriva. Sempre troppo tardi, a volte in modo incomprensibile e scandaloso per quel po’ di umano che ci muove. Raniero Busco è condannato a 24 anni per l’omicidio di Simonetta Cesaroni, avvenuto in quell’afosa estate romana del 1990.
I talk show e la cronaca ne parlano come di un fatto d’attualità, ripropongono location e profili psicologici dei protagonisti. Sono passati 21 anni. Roma è un’altra città, Raniero Busco probabilmente un altro uomo. A parte la difficoltà nel discernere la colpevolezza di un uomo a 21 anni di distanza, e ammesso che sia colpevole, si può votarlo al carcere per il resto dei suoi giorni, adesso?
Un assassino va punito, comunque. Ma perchè non ci provoca lo stesso orrore di una condanna a morte decretata a molti anni dai fatti accaduti? In quel caso, non solo la parte buona dell’America si indigna, ma si attivano proteste in tutto il mondo libero. Perché gli uomini cambiano, grazieaddio. Perché se la pena dev’essere redentiva, la redenzione può darsi che cominci prima delle sentenze dei giudici, soprattutto se sono un po’ lente.
So bene che la legge non tiene conto dell’intimo pentimento, che un tribunale non è un confessionale. E più ci penso più ringrazio che il nostro destino sia in mano alla giustizia di Dio (allora basterà un’Ave Maria biascicata in hora mortis per essere perdonati, come dice Dante). Non ce l’ho coi giudici, che fanno il loro mestiere, e sono legati (lex, appunto) a norme, consuetudini, che non ammettono deroghe, perché la legge sarebbe uguale per tutti, sulle carte. E tocca mantenere fiducia nella giustizia, fino a prova contraria però, o meglio, fino a prova esibita con certezza, e non sempre c’è.
Ma mi spaventa la mentalità che circola, segnata da un giustizialismo che sa tanto di vendetta, di livore che accumula frustrazioni e sconfitte personali, che chiede rabbiosamente di trovare capri espiatori per tutto quello che al mondo non ci sta bene e non riusciamo a capire. Raniero Busco è più che un assassino, è l’assassino, che paga per tutti gli assassini a piede libero, che sconta la nostra paura per mogli, figlie, amiche, che sconta la nostra impotenza a proteggerle. Ma deve solo pagare, se è lui il colpevole? O deve soprattutto capire il male che ha fatto, e dopo tanti anni restituirlo in bene, magari lavorando per gli altri?
E il caso di Totò Cuffaro? Anche qui, prima della sentenza definitiva, erano tanti i dubbi sulla sua colpevolezza. C’è stato, ed è più che lecito davanti allo spettacolo di una magistratura sempre più politicizzata e in guerra, il dubbio di un accanimento ad hoc. E ricordiamo che, come tutti, anche i giudici hanno storia, educazione, idee. Nessuno è assolutamente super partes, perché poi dovrebbero esserlo i giudici, se non nella retorica strumentalmente piegata a un disegno politico?
Eppure, dal giorno stesso della condanna, per tutti deve stare in galera come mafioso, anche per i suoi ex amici e colleghi di partito. È vero, giudicato colpevole non può più disporre agevolmente di un pacchetto di voti considerevole, non serve più. Ma siamo proprio sicuri che un uomo vada abbandonato concedendogli solo il beneficio di saper affrontare il carcere con dignità? Se è innocente, perché dovrebbe entrare in galera con stile?
Ben pochi tra i commentatori più autorevoli hanno avuto il coraggio di un ripensamento. Può una sentenza schiacciare sulla vita di un uomo una pietra tombale? È una domanda aperta. Ma vorrei che a rispondere non fossero slogan o articoli di diritto penale, non solo. Vorrei sentire il brivido dimenticato di un pizzico di compassione, di pena. Nel significato autentico che ci dà l’etimologia: non godimento dunque, o soddisfazione, ma sofferenza, condivisione dolorosa. Per quel po’ di cultura cristiana che ancora latita nel fondo del nostro io, della nostra storia civile. E perché tocca tener vivo l’umano residuo che è in noi.