La piccola Elena non voleva mai andare all’asilo. Si attaccava ogni mattina alle gonne di mamma, faceva a papà gli occhi dolci – un’attrice provetta – come tutti i bambini. Poi invece stava benissimo, giocava con la terra, faceva le smorfie agli altri bambini, mangiava di gusto. Solo che lasciare la mamma, così indaffarata, così distratta, ultimamente, le pesava un po’. Si dice che i bambini piccoli non capiscono, e invece capiva benissimo, Elena, che stava capitando qualcosa di nuovo, di strano, alla sua mamma. Anche papà era più stanco e svagato, il suo papà, che la faceva saltare in aria quando tornava a casa la sera. Ecco, quella mattina all’asilo al solito non ci voleva andare. Poi s’era accucciata sul seggiolino posteriore (ma perché li mettono sul seggiolino posteriore, i bambini? Così non li si può vedere bene? Sarà anche pericoloso quello davanti, ma fate loro un’air bag di piume, inventate un modo). Il pollice in bocca, fingeva zitta zitta di recarsi al martirio, e faceva l’offesa.
Papà era di corsa, come sempre, aveva il bavero della giacca rivoltato, non si era neanche pettinato, e una telefonata sul cellulare, poi un’altra. La mamma non aveva dormito un granchè, anche quella notte, stamattina piangeva. Il lavoro non parliamone, complicato, deludente, intenso, un periodaccio, poi l’influenza, quella inaspettata, che ti butta giù, perché non ti puoi curare, non c’è tempo. Papà non la guardava come sempre facendole l’occhiolino nello specchietto retrovisore. Elena si addormenta. Quando si sveglia fa caldo, un caldo insopportabile, è sola. Papà dov’è? Papà. Quante volte l’avrà chiamato, prima di addormentarsi di nuovo, sfinita, sudata, con le orecchie che ronzano e la gola secca, amoroso giglio, sempre più rossa in viso.
Non ce l’ha fatta, Elena. E non sappiamo se ce la farà quel papà, straziato da una colpa che poteva e doveva essere leggera. Una distrazione, una sbadataggine. Lo criminalizziamo, ci scandalizziamo. Eppure dovremmo domandarci perché. Perché, se un uomo è sano, e non ha problemi di perdita di memorie, o stati depressivi non diagnosticati, non ci si dimentica in macchina per cinque ore la propria figlia di 22 mesi. Non è possibile, non è umano.
Invece capita, ogni anno capita. Perché è umano sbagliare, ma è disumano correre, sempre. E’ disumano essere soli, ad affrontare una fatica troppo grande, che non riusciamo a portare. Cos’aveva di più urgente e non rimandabile quel padre, per abbandonare la figlia su un seggiolino, al sole? Cos’aveva per la testa, cos’abbiamo per la testa, ogni giorno, di cosa consistiamo, cosa ci rende felici, cosa desideriamo per esserlo? Che si può volere di più, che una bimbetta da portare all’asilo e un altro che sta arrivando, e una moglie che ti ama, ti ama pazzamente, tano da difenderti, distrutta dalle lacrime, da una ferita al cuore che non può lasciare esplodere, perché sa che il suo bimbo, quello che porta in sé, ha bisogno che la mamma stia in piedi, che ce la faccia, che si sforzi di pensare a lui.
E qual’è il senso atroce di questa piccola vita di 22 mesi stroncata in modo così assurdo, inimmaginabile? Un senso ce l’avrà pure. E del resto, qual è il senso di ogni dolore, di ogni assurdo, se non un Mistero, quello stesso che ci ha creato, che non può volerci male, per averci creati. Che non può non prendere con sé la piccola Elena, che ha tanto voluto, consolare la mamma, abbracciare il papà. Quale pena, quale tormento più grande per quell’uomo? Non gli tocchi anche l’ulteriore abbandono, una condanna buona solo ad acuire le ferite e scardinare quel legame con la moglie che ci commuove. Ma pensare ad Elena, oggi, ci renderà più grati e più attenti. Perché non sia, per noi, invano.