La notizia di Capodanno, sulla homepage del New York Times, è stata la corsa dei grandi produttori Usa di chip a ricostruire una base industriale domestica. Per il reshoring strategico imposto dalla nuova confrontation geopolitica con la Cina sono in preparazione 200 miliardi di dollari di investimenti: destinati a essere sorretti da sussidi statali, in una sorta di “New Deal-2” deciso dall’Amministrazione Biden, che sta suscitando allarmi e ire nell’Ue. Comunque non basterà, “non sarà la pallottola d’argento”, ha titolato preoccupato il Nyt. La nuova guerra tecnologica con il Dragone si profila molto più lunga e costosa di quella militare in corso in Ucraina.
Il primo gigante citato in prima linea dal Nyt è Intel: che ha annunciato lo stanziamento di 20 miliardi di dollari per due nuove megafabbriche in Ohio (con un budget addizionale di 100 milioni per la formazione presso la Purdue University, che ha l’obiettivo di diplomare mille ingegneri all’anno specializzati in tecnologie dei semiconduttori). Ma Intel ha deciso di investire anche in Italia: lo ha preannunciato il 27 settembre (due giorni dopo il voto politico).
La costruzione di una gigafactory nell’Europa meridionale avrebbe un valore diretto di 4,5 miliardi di euro (per 3.500 nuovi posti di lavoro entro il 2025), anche se si stima ne muoverebbe in tutto oltre 10: di cui una parte dovrebbe rappresentare il sostegno pubblico (Ue, Stato, Regione). Ma ogni dubbio sul totale interesse dell’Italia al progetto sono stati fugati personalmente quattro giorni fa dalla Premier Giorgia Meloni, nella conferenza stampa di fine anno: “Incontrerò i vertici di Intel”, ha detto. Nel frattempo resta da sciogliere il nodo sulla localizzazione del nuovo polo, per la quale sarebbero in volata finale Torino e Verona. E il capoluogo del Veneto occidentale sarebbe in vantaggio, come ha anticipato il Governatore della Regione, Luca Zaia.
Ancora un anno fa, nella Pianura padana centrale era in cantiere una ben diversa operazione-vetrina per i grandi investimenti esteri in Italia. In provincia di Reggio Emilia, nella “Motor Valley” italiana, nel pieno della prima ondata Covid aveva messo gli occhi una joint venture sino-americana: la Silk-Faw. Un ingegnere americano sbarcato a Modena, Jonathan Krane, aveva convinto la Faw – una delle “Cinque Sorelle” cinesi dell’auto – a investire in un impianto produttivo di supercar ibride. Il progetto sarebbe costato 1,3 miliardi e avrebbe creato da tre a cinquemila posti di lavoro qualificati, diretti o indiretti, inserendosi in un distretto competitivo a livello internazionale. Nessuna sorpresa che la Regione Emilia Romagna abbia dato subito un appoggio deciso: stanziando 4,5 milioni. E per il progetto si è speso pubblicamente l’ex premier Romano Prodi. Reggiano, l’ex Presidente della Commissione Ue è da sempre gestore di altissime relazioni fra Italia e Cina.
A fine 2022 – quando la Cina è rapidamente diventata un partner difficile – il progetto è però già del tutto naufragato e non nel migliore dei modi. Nessuna fase operativa è stata mai “messa a terra”, a cominciare dall’acquisto del terreno per la nuova fabbrica. La Procura di Reggio Emilia ha intanto deciso lo scorso agosto di aprire indagini (al momento contro ignoti) su operazioni collegate a fondi e società della filiera Silk-Faw localizzate in paradisi fiscali. Di pochi giorni prima di Natale è infine una prima azione legale di una parte dei 40 dipendenti da mesi senza stipendio.
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