Nella giornata del 13 settembre 2023 alle 14.30 italiane verrà diffuso il dato tendenziale annuo dell’inflazione Usa riferito al mese di agosto. Il dato viene rilasciato dal dipartimento di statistica incaricato di tali elaborazioni. Nel presente intervento si stima un tasso del 3,5% con un intervallo al minimo del 3,3%: tutto questo dovuto alla permanenza del prezzo del petrolio al barile WTI sempre sopra gli 80 dollari e non superiore di fatto a un 83,5 dollari medio come livello massimo, almeno fino al 27 agosto. In aggiunta si è avuto il simposio delle banche centrali del G7 a Jackson Hole tra il 24 e il 25 agosto, nel quale lo stesso presidente Fed, Jeremy Powell, non ha escluso ulteriori inasprimenti dei tassi di interesse se la situazione economica statunitense mostrasse valori incrementativi di tante variabili della domanda aggregata, già al momento robuste.



Per come è stata presentata la prolusione del presidente, con tanto di dati della domanda aggregata, resta sullo sfondo il convitato di pietra, cioè il petrolio, che con le attuali dinamiche sui mercati di riferimento ritorna a far incrementare l’inflazione, come si ipotizza in questo intervento. In sostanza, il costo dell’energia è il vettore principale dell’incremento dei prezzi, i quali si scaricano a valle tramite incrementi sulle buste paghe salariali almeno nominali e sulla politica di ricarico delle imprese.



Questa situazione è alimentata non dall’eccesso di liquidità della Fed, che di fatto è quasi del tutto tesaurizzato nel circuito finanziario per sostenere i corsi azionari di Wall Street e le obbligazioni del tesoro americano, ma piuttosto dalla persistente presenza di deficit pubblici e federali che non vengono azzerati e causando così gli eccessi di domanda aggregata. L’immagine più rappresentativa di questo stato di cose è il cerino acceso sulla benzina: scoppia sicuramente l’incendio, soltanto che, attualmente, gli Usa a mio parere simulano la politica valutaria aggressiva di rafforzamento del dollaro, tramite incrementi dei tassi di interesse della Fed, con una ordinaria politica monetaria restrittiva di contenimento all’inflazione.



Lo schema, che non è tanto di matrice Fed, quanto dell’esecutivo (Casa Bianca e Dipartimento del Tesoro) è che con un dollaro rafforzato, essendo esso valuta di riferimento degli scambi internazionali e riserva privilegiata presso le banche centrali di tutto il mondo, le importazioni diminuiscano nei prezzi sul mercato interno, spegnendo così l’inflazione; l’attore principale di tutta questa sequenza di eventi è, come detto, il petrolio. Se non che, tra il 22 e il 24 agosto si è avuto un evento straordinario soprattutto per le sue conclusioni che sono risultate diverse dalle aspettative generalizzate degli operatori; stiamo parlando della conferenza Brics in Sudafrica che si è chiusa addirittura con l’allargamento ad altri sei Paesi, operativo da gennaio 2024; inoltre, vanno analizzate con cura alcune conclusioni finanziarie per nulla neutre, anche se per ora la valuta R5 anche in versione di sola unità di conto dell’area è stata rinviata a data da destinarsi.

Allora, questo evento dei Brics è uno spartiacque veramente importante, perché ha dei risultati politici superiori alle attese e che pongono nell’angolo tutti i desiderata scontati statunitensi. Due fattori certificano l’evidente e sorprendente risultato politico. Il primo fattore è il peso complessivo di quelli che chiameremo da ora in avanti i Brics+, cioè i 5 originari più altri sei per un totale attuale di 11 partecipanti; i Brics+ sommano il 37% del Pil mondiale nominale in dollari senza correzioni con la PPA (indice più propagandistico che efficace come già illustrato) la metà di fatto della popolazione mondiale, e un range tra il 44% e il 53% di tutti i prodotti petroliferi mondiali prodotti e esportati; se ora si pone mente al fatto che il gruppo G7 consuma circa il 46% del petrolio e suoi derivati a livello mondiale e ne produce appena il 23-24%, si capisce bene la china pericolosa di fronte alla quale è l’Occidente intero e gli Usa.

Se poi aggiungiamo che ancora non si sono uniti ai Brics+ Paesi comunque in orbita russa e protetti dalla stessa come l’Algeria, il Kazakhistan, il Venezuela e tutte le altre nazioni centro asiatiche nate dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, in termini di petrolio il controllo produttivo a livello mondiale arriva a un abbondante 70%, con in più il resto delle materie prime industriali e agricole che hanno una quota sul mondo intero del 75%. Dati alla mano, questa è una voragine per la politica degli Stati Uniti, per la loro economia e per il dollaro. Prima di andare avanti però ci dobbiamo concentrare sul secondo fattore che rende forti a livello politico i Brics+ e che spiazza del tutto gli americani con pochissime vie di uscita veramente efficaci da questa impasse.

Il secondo fattore è che il consesso Brics+ è sotto la protezione militare bellica e nucleare della Russia, che è inaffrontabile per gli Usa; gli Stati Uniti perdono, cioè, dopo il 24 agosto la capacità strategica a livello mondiale di piegare le variabili economiche e finanziarie a loro piacimento con la dimensione del potere bellico; non possono più intendere il mondo come una scacchiera a loro disposizione. Come immagine questo è un vero e proprio scacco al re che non tarderà a manifestare i suoi frutti drammatici se tra le nazioni del G7 e dei Brics+ non si provano a implementare meccanismi di relazioni cooperative e non di scontro, come in Ucraina attualmente. Quindi, è come se il discorso di Jeremy Powell assuma le tonalità dell’ultimo canto del cigno, prima che nuovi scenari paradigmatici politici prima e macroeconomici poi si inizino a sperimentare nella vita di tutti giorni.

In sintesi, il sud del mondo, metà popolazione mondiale organizzata per ora a un larvale livello politico, robusto e non affrontabile in modalità di scontro bellico, chiede una sensibile svalutazione del dollaro americano; cioè le merci e i servizi dei Paesi Brics+ noi occidentali li dovremo iniziare a pagare di più, abbastanza di più. Questa è la vera natura dell’incremento dei tassi della Fed di fronte alla quale essa non può e non sa arretrare.

(1 – continua)

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