A questo punto, risulta più chiaro inquadrare l’attuale fenomeno inflazionistico americano che ha avuto origine da due anni a questa parte; abbiamo al momento un tasso annuo tendenziale del 4% e a maggio 2022 si è avuto invece un picco del 9,1%; quest’ultimo valore, unito alla progressione da agosto 2021 sempre più imperiosa del tasso inflattivo in crescita, convinse la Fed a intraprendere la strada senza tentennamenti dell’innalzamento dei tassi di interesse, attualmente in una forchetta di valori tra il 5% e il 5,25%.



Tutto questo a livello appariscente sembra l’ortodossa politica monetaria di incremento dei tassi di interesse per deprimere in qualche modo la domanda aggregata e per tale via abbattere il fenomeno inflazionistico; ribadiamo che a livello appariscente è andato tutto in tale maniera. Ma un’analisi più attenta ci fa collegare qualcosa di molto importante e secondo me fondamentale per com’è stato condotto il contrasto all’inflazione, e cioè come in precedenza accennato la dinamica del prezzo del petrolio sui mercati internazionali; in più chiare lettere, ad aprile/maggio 2022 il petrolio nella misura del barile Wti toccava il prezzo di 132 dollari al barile e infatti a tale apice l’inflazione Usa si portava al 9%; solamente con la caduta di tale prezzo oramai stabilmente sotto quota 80 dollari al barile da qualche mese l’inflazione è scesa di parecchio; si vuole con ciò sottolineare che l’innalzamento dei tassi di interesse ha funzionato da politica valutaria incrementando sui mercati finanziari mondiali la domanda di dollari a discapito di tutte le altre valute e materie prime; così facendo, i prezzi all’importazione delle materie prime negli Usa sono drasticamente calati, permettendo così all’inflazione di scemare; è solo in tale contesto ancora funzionante di un dollaro che ha anche il ruolo di moneta e asset di riserva mondiale che gli Stati Uniti sono riusciti a scansare provvisoriamente la crisi inflattiva; le nuvolaglie, però, di cambiamenti fondamentali sono dietro l’angolo, e la stessa segretaria al Tesoro Yellen ha affermato al Congresso di prepararsi per i prossimi anni alla perdita di status di asset unico di riserva mondiale per il dollaro.



Tra le altre cose, queste continue manovre speculative e di manipolazione informativa condotte dagli Stati Uniti stanno irretendo sempre di più l’Arabia Saudita e la Russia, le quali in mondo congiunto producono 22 milioni circa di barili giornalieri di petrolio sui 100 milioni di tutto il mondo, e pertanto, lo scontro con gli Usa portato avanti in maniera più esplicita dall’Arabia Saudita sta diventando sempre più insidioso; insomma, Riyad, sfruttando una tecnica di manipolazione informativa parallela e opposta a quella degli Usa, ha fatto trapelare dati che indicano che il bilancio pluriennale e decennale del Regno è stato calibrato sulla quotazione di 100 dollari al barile in media; gli Stati Uniti, al contrario di epoche precedenti, non hanno le capacità stavolta della mano militare in quanto l’Arabia è spregiudicatamente e sottilmente sotto la protezione dell’ombrello militare e nucleare russo.



Non ci si stanca mai di ripetere che la struttura dell’inflazione statunitense è dovuta per il 60-65% agli incrementi di prezzo del petrolio, per il 15% circa alla rottura della globalizzazione e delle catene di approvvigionamento, per un altro 15% alla politica di sussidi del periodo Covid-19 e per un 5% residuo a effetti ricchezza causati dalle bolle sul mercato immobiliare data la grande liquidità riversata su Wall Street.

Va sempre ricordato, infatti, che la delicatezza e l’importanza della materia prima petrolio risiede nel fatto che se poniamo pari a 100 il consumo attuale di energia mondiale proveniente da ogni fonte, il petrolio pesa per 35 (la maggiore di tutte), dove per la quota pari a 20/100 è anelastico in quanto non sostituibile nel breve medio periodo nemmeno da gas e carbone; si pensi, ad esempio, al parco autovetture mondiali, al settore aeronautico e navale militare e civile, alle produzioni pesanti di acciaio e alluminio, ecc.; per fare una sostituzione seria con carbone e gas ci vorrebbero non meno di 15 anni progettuali ed effettivamente realizzati.

Insomma, se Arabia Saudita e Russia, al di là di tante aspettative degli operatori di mezzo mondo, decidessero da inizio luglio un taglio non più solo di un milioni di barili, ma ad esempio di tre milioni, l’inflazione Usa in capo a sei/sette mesi sarebbe sopra il 12%.

Queste cose alla Casa Bianca, al Congresso e alla Fed sono drammaticamente chiare, mentre Wall Street vuole solo che le istituzioni in oggetto risolvano ogni tipo di problema di natura extrafinanziaria.

(4- fine)

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