Al Consiglio europeo di settimana scorsa, oltre all’immigrazione, si sono affrontati altri temi di carattere economico, ma i capi di Stato e di Governo dei Paesi dell’Ue non hanno preso decisioni particolari. E hanno chiesto alla Commissione di “valutare l’impatto dell’Ira sugli investimenti e l’efficacia delle misure adottate in risposta dall’Unione europea e dai suoi Stati membri”. Come noto, al momento, oltre a una maggior flessibilità nell’utilizzo degli aiuti di Stato, Bruxelles ha risposto all’iniziativa dell’Amministrazione Biden, che premia con incentivi e sgravi fiscali le produzioni sul territorio americano, presentando il 20 giugno un piano a supporto della “leadership europea sulle tecnologie critiche”, denominato Step, in cui sono confluiti fondi già esistenti per un totale 110 miliardi, di cui solo 10 rappresentati da risorse addizionali.



Per Mario Deaglio, Professore emerito di Economia internazionale all’Università di Torino, «è difficile dare un giudizio su questo piano, visto che siamo ancora in una fase molto preliminare. Rappresenta in ogni caso una dichiarazione d’intenti che è senz’altro positiva, anche se non è semplice mettere d’accordo tutti. Credo comunque che gli americani si stiano rendendo conto che l’Ira non sta funzionando benissimo. Al momento nessuno sembra avere la ricetta vincente in tasca, bisogna costruirla poco per volta».



Cosa non sta funzionando nell’Ira?

Probabilmente gli americani si aspettavano un flusso di imprese straniere, pronte a trasferire le loro produzioni negli Usa, superiore rispetto a quello che si è riscontrato finora. Del resto le aziende europee sanno bene che l’anno prossimo ci saranno le presidenziali e che, quindi, il quadro negli Stati Uniti potrebbe non essere lo stesso di oggi. Non trascurerei anche le conseguenze di notizie come quella recentemente arrivata da Pisa sulle batterie quantistiche, che sembra poter rivoluzionare il futuro dell’automotive. E poi ci sono corporation americane che stanno prendendo decisioni sui loro investimenti in settori strategici, come i microchip, che si stanno orientando soprattutto verso la Germania.



Al Consiglio europeo è stato anche deciso di fissare l’esame dei progressi compiuti sul fronte del potenziamento della competitività europea e sul futuro del mercato unico a marzo 2024. Non rischia di essere troppo tardi rispetto alle decisioni delle imprese europee, considerando oltretutto che a primavera si terranno le elezioni per l’Europarlamento?

Indubbiamente c’è un fattore elettorale che conta e sembra emergere la volontà di risolvere prima del voto questioni di carattere più generale, come i rapporti tra i Paesi dell’Unione, e tutto questo pone in secondo piano le esigenze delle imprese. D’altro canto, però, non dobbiamo dimenticare che quest’ultime devono fare i conti con tassi in rialzo, che non sono così favorevoli agli investimenti come potevano esserlo solo sei mesi fa. Quindi, potrebbero temporeggiare.

A proposito di tassi, com’è stato ribadito a Sintra, la Bce li alzerà ancora. La politica cosa può fare per limitare gli impatti negativi delle scelte dell’Eurotower?

Tantissimo, perché abbiamo chiaramente, e gli eventi francesi lo dimostrano, un conflitto tra generazioni molto duro, che deve essere risolto, e questo è lo scopo della politica. Si tratta di creare un sistema scolastico efficiente, come pure quello sanitario, di introdurre un salario minimo adeguato. In buona sostanza, la politica deve guardare alle giovani generazioni, alle loro prospettive. Sul piano economico-industriale penso invece che proseguirà la tendenza a un ritorno della mano pubblica nell’industria e nelle infrastrutture.

A Bruxelles si è anche parlato dei rapporti con la Cina, ribadendo “l’approccio strategico multiforme dell’Ue” nei confronti del gigante asiatico, che viene visto contemporaneamente come “un partner, un concorrente, un rivale sistemico”. Sembra un rapporto difficile da portare avanti…

Sì, non è affatto semplice. Tuttavia, va detto che tra i tanti confronti che ci sono oggi a livello globale quello tra Europa e Cina è uno dei più civili.

È un difficile equilibro, quindi potrebbe anche essere facilmente spostato.

Credo che le pressioni a romperlo siano poche, mentre esistono per spostarlo un poco. Fatico a immaginare un futuro in cui Europa e Cina non si parlano più. Possiamo avere maggiore o minore empatia con Pechino, ma sostanzialmente credo che si continuerà con relazioni e scambi commerciali normali.

Intanto l’inviato speciale della Cina per l’Europa ha già espresso l’auspicio che l’Italia non abbandoni il progetto della Via della Seta.

L’Italia ha forti pressioni su questo fronte, forse più che sulla ratifica del Mes, perché si tratta di un tema di lungo periodo. Mi chiedo, però, che differenza ci sia tra la presenza italiana nel progetto di Pechino e la vendita da poco perfezionata dalla Germania del 25% del Porto di Amburgo al colosso statale cinese Cosco. La Cina ha una strategia globale e la persegue, in Italia dovremmo farcene una e credo si debba partire dall’Africa, perché è più vicina e ha la popolazione più dinamica: bisognerebbe occuparsene andando ben più in là della questione migranti.

Vuol dire anche in questo caso decidere cosa fare rispetto alla Cina, vista la sua presenza in Africa.

Certamente. L’ideale sarebbe riuscire ad avere lo stesso rapporto privilegiato che la Germania si è costruita con la Cina senza la firma del memorandum sulla Via della seta.

(Lorenzo Torrisi)

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