Ridurre la dipendenza dalla Cina? “Ci vorranno decenni. Le attuali catene del valore sono state costruite nel corso di mezzo secolo, come si può pensare di smontarle in dodici mesi?”. Ralf Thomas è il gran capo della Siemens, il colosso tedesco, ed è solito dire pane al pane e vino al vino. La sua uscita ha fatto rumore in Germania dove l’intero mondo politico spinge per disincagliarsi al più presto da una dipendenza diventata sempre più pericolosa: la Bundesbank, la ministra degli Esteri Annalena Baerbock, il Cancelliere Olaf Scholz, tutti premono. Salvo poi portare a Pechino, come ha fatto Scholz, i top manager della stessa Siemens, della Basf e di altri colossi industriali che in Cina non solo esportano, ma lavorano. Nessuno è immune da doppiezze e ipocrisie.



Thomas non era presente al G7 dei ministri economici organizzato dall’Italia a Stresa, ma era il convitato di pietra, o più esattamente lo era il suo franco riconoscimento di quanto sia difficile, ai limiti dell’impossibile oggi realizzare il compito che l’Amministrazione Biden ha affidato ai suoi alleati. Un compito ribadito a Stresa da Janet Yellen, segretario al Tesoro.



I rapporti con la Cina così come sono non possono più funzionare e forse a questo punto bisogna riconoscere che non sono mai stati all’insegna del libero scambio. Free trade e fair trade? Né l’uno né l’altro, né libero né equo, tutto è partito con il piede sbagliato, con ingenue concessioni a Pechino, fin dalla nascita dell’Organizzazione per il commercio mondiale, ha denunciato in tempi non sospetti Giulio Tremonti. Ma tornare indietro a questo punto è davvero arduo.

Prendiamo le auto elettriche. Biden propone tariffe del 100%. Ebbene, secondo numerosi studi, anche in tal caso i margini per i costruttori cinesi sarebbero positivi perché il costo di produzione di una vettura tutta elettrica in Cina è molto maggiore che in Usa e in Europa, mentre sui mercati occidentali si possono spuntare prezzi di mercato più alti. Al G7 è emersa l’irritazione dei ministri europei per la corsa al protezionismo che accomuna Biden e Trump così che un’eventuale vittoria di quest’ultimo non produrrà nessun cambio di direzione, anzi forse andrà ancor più lontano. E non ci sono solo le automobili, ci sono anche i pannelli solari, i semiconduttori, gran parte dell’universo digitale.



Emerge chiaramente la contraddizione di fondo: da una parte si vuole accelerare la transizione industriale, dall’altra si fa del tutto per renderla più difficile e più cara. Il dilemma diventa irrisolvibile se si pensa che sia nelle auto, sia nei pannelli la Cina ha ormai la leadership mondiale. E controlla il trattamento dei metalli fondamentali per le batterie come il cobalto, il nickel, il litio. Una trappola dalla quale occorre uscire, ma nessun Paese del G7 è in grado di sapere come. Nemmeno l’Italia.

È vero che il Governo ha sciolto il patto sulla via della Seta, è vero che in Pirelli ha creato ostacoli alla proprietà cinese per favorire la governance italiana, ma la presenza cinese è ampia sia nella manifattura, sia nei servizi e anche nelle reti. La cinese State Grid possiede il 35% di Cdp reti che a sua volta controlla Terna, Snam e Italgas. Il patto parasociale è stato rinnovato automaticamente senza che scattasse la normativa sul golden power usata invece nel caso Pirelli. State Grid non ha alcun controllo sulla governance, questa la spiegazione ufficiale, e soprattutto ha speso 2,5 miliardi di euro per la sua quota azionaria. Non sembra che il Governo abbia la voglia (e ancor meno la possibilità) di pagare per spingere fuori i soci cinesi, anche se non si tratta di beni di consumo, ma di infrastrutture strategiche per l’Italia.

Contraddizioni non risolvibili allo stato attuale. Janet Yellen ha chiesto che l’Unione europea si muova in sintonia con gli Stati Uniti, lo stesso vale per il Giappone, il terzo elefante nella cristalleria del G7 dopo Usa e Germania. Ma finora prevalgono i timori di ritorsioni cinesi che s’aggiungono, tra l’altro, a quelle russe. Soprattutto domina tutto questo scenario la mancanza di alternative.

L’Europa ha perso la corsa all’elettrico, ai semiconduttori e ora è in netto ritardo anche sull’intelligenza artificiale per la quale ha appena approvato un complesso regolamento l’AI Act che dovrebbe essere applicato a partire dal 2027. Ma nessuno è in grado di dire a quale livello di avanzamento saranno arrivate Chat Gpt e le altre sue concorrenti (se ne calcolano almeno 900) mentre tutti i colossi digitali stanno si sono gettati pancia a terra per utilizzare, integrare e sviluppare l’IA. Ci troviamo di fronte a una variante del paradosso di Zenone, per quanto veloce sia il controllore, l’innovazione tecnologica si trova sempre almeno un passo avanti. E il dramma è che questo passo avanti non arriva da un Paese amico, ma da un avversario strategico.

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