Nel suo monumentale Storia della finanza nell’Europa occidentale, Charles P. Kindleberger, fra le lezioni di qualche utilità che la Storia dell’economia può offrire per comprendere la dinamica dell’eterno ritorno dell’instabilità finanziaria, annovera la capacità dei vari sistemi economici di innovare creando nuove istituzioni e strumenti. In un’epoca di acuta instabilità monetaria, grazie all’emersione di nuove istituzioni è possibile domare l’incertezza, ma contraddittoriamente l’emersione di nuove istituzioni finanziarie è la causa dell’instabilità stessa, perché rendono il vecchio sistema inefficiente e quindi instabile.
Per Kindleberger parliamo di una questione aperta che può trovare una possibile spiegazione nell’analisi economica pura oppure nella facoltà del decisore politico di imporre la propria volontà.
È sicuramente un esercizio interessante traslare questa visione all’attuale dirompente emersione delle monete e delle attività finanziarie digitali, le quali stanno seriamente minacciando il ruolo egemone del dollaro nelle transazioni transfrontaliere e di vertice del sistema monetario internazionale. Una rivoluzione digitale in cui la stabilità e la fiducia che servono alla stabilità del sistema non sono più garantite dal potere militare e dalla primazia geopolitica, ma piuttosto dalla credibilità che può avere un sistema nel garantire la circolazione delle informazioni e la comunicazione di dati fra economie e comunità di origine diversa.
Anche se chi fa uso di crudo realismo ci ricorda che le informazioni che alimentano il Web viaggiano su cavi sottomarini che possono essere recisi da una grande potenza militare, non possiamo negare che la rivoluzione digitale in atto ci consegna una fase della globalizzazione in cui in modo contradditorio al decoupling delle economie reali corrisponde un ulteriore incremento dell’interconnessione e dell’interdipendenza finanziaria.
In un recente articolo Harold James, professore di Storia delle relazioni internazionali nell’Università di Princeton, ha comparato la fase attuale a quella che seguì la decisione del 1971 del presidente Nixon di sospendere la convertibilità del dollaro cambiando così il corso della storia monetaria. Per James, Biden, esattamente come Nixon, si trova a fare i conti con le conseguenze di una guerra costosissima – il Vietnam negli anni Settanta, l’Afghanistan oggi – che si è rivelata impossibile da vincere dovendo, al contempo, votare la propria attenzione all’urgenza delle vicende domestiche. Una situazione che come negli anni Settanta potrebbe avere conseguenze anche sul destino del dollaro.
La decisione di Nixon, causando la fine del regime di cambi fissi nato nel 1944 a Bretton Woods, affidò il valore del dollaro alle fluttuazioni dei mercati finanziari i quali nonostante turbolenze sempre più frequenti e crisi cicliche hanno ribadito per cinquant’anni la centralità del dollaro, ma questa volta le cose potrebbero andare diversamente e i mercati trovare un sostituto. La pandemia, accelerando vertiginosamente i processi di digitalizzazione e quindi aprendo una fase della globalizzazione in cui a una diminuzione dello scambio di merci corrisponde l’incremento esponenziale di quello dei dati e delle informazioni, potrebbe annoverare fra le sue vittime proprio il dollaro.
L’amministrazione Biden rischia, così, di dover affrontare un nuovo Nixon Shock in cui alla fine dell’ordine monetario che verteva sulla centralità del dollaro nel suo rapporto privilegiato con il petrolio, corrisponde l’emersione un nuovo ordine centrato sul rapporto fra monete digitali e il controllo della circolazione delle informazioni. Una rivoluzione digitale che vede contrapposte banche centrali e mercati privati che in America, va ricordato, sono prossimi a trovare soluzioni efficienti per la creazione di un dollaro digitale.
Uno scenario in cui la Cina parte decisamente avvantaggiata, mentre gli Stati Uniti iniziano a dover immaginare un nuovo ordine in cui la primazia del dollaro è solo un ricordo del passato.
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