Oggi stiamo vivendo un momento storico, epocale, un crocevia che potrebbe cambiare completamente il mondo per come lo conosciamo. Questo preambolo negli ultimi anni, ma soprattutto mesi, è stato come un tormentone estivo, una canzone suonata su tutte le emittenti decine di volte al giorno, un invasivo slogan pubblicitario che ci perseguitava ovunque ci girassimo. Era il ritornello della green economy, quella che produceva profezie apocalittiche legate al cambiamento climatico e al riscaldamento globale, che ci annunciava il futuro perduto delle nuove generazioni. Ora finalmente, purtroppo, è arrivata una vera emergenza, un qualcosa che davvero rischia di cambiare il mondo per come lo conosciamo, stravolgere le nostre abitudini e prospettive, costringerci forzatamente al ripensamento del nostro modello socioeconomico globalizzato.
Ironia della sorte, i combustibili fossili rischiano realmente di giocare un ruolo chiave in questa svolta, ma non per il trito problema dell’inquinamento, bensì per l’inopportuna tempistica di una nuova guerra commerciale. Infatti, come se lo stallo dell’economia globale causato dal virus non fosse sufficientemente disastroso, a gettare benzina sul fuoco dell’inevitabile imminente recessione è proprio la materia prima per eccellenza, l’oro nero nemico di qualunque eco warrior che si rispetti, il petrolio o, come comunemente chiamato in gergo tecnico, barile.
Questa preziosa merce che ormai da più di un secolo rappresenta la principale fonte d’energia della nostra civiltà anche oggi mette a nudo il peggio della natura umana, un cocktail di opportunismo e follia che ha spinto due dei principali produttori a scatenare una sanguinosa guerra di prezzi e quote di mercato proprio nel bel mezzo della più grave emergenza globale da generazioni. Questo rinnovato conflitto con le sue conseguenze rischia di far impallidire la guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina, soprattutto per il suo tempismo che in questo caso gioca un ruolo al limite del cospirazionismo di prima divisione. A testimoniarlo ci sono i mercati finanziari con il loro inanellarsi di un crollo dietro l’altro al punto di retrocedere la crisi del 2008 alla categoria di tempeste nei bicchieri d’acqua.
Brutte notizie quindi per i cavalieri della crociata verde, di questo ritmo presto il mondo sarà inondato da quantità di petrolio mai viste, forse neanche immaginate e memoria d’uomo. Certo per alcuni tutto questo risulta una grande opportunità, a misurare questa grande occasione ci assiste un particolare mercato dei trasporti marittimi, quello delle petroliere.
Giusto premettere che in generale, come abbiamo già visto di recente, il mondo dei traffici marittimi è agonizzante, a dimostrazione il grido disperato dell’armamento italiano sotto forma di lettera formale da parte delle due associazioni di settore recapitata al Governo recentemente. Un bollettino di guerra tra la chiusura di vari porti nel mondo per le navi nostrane e il rifiuto di fare approdo nei nostri porti di quelle straniere, questo solo per citare le problematiche più eclatanti. Una crisi che sta colpendo praticamente tutti i settori già stremati dalla chiusura della Cina nel mese di febbraio e che ancora non risulta ovviamente normalizzata. Proprio in questo scenario drammatico ci pensano le navi cisterna a farsi eccezione che conferma la regola sperimentando un boom di guadagni così vertiginoso da sbriciolare qualunque record della storia.
Merito dell’eccesso di petrolio in circolazione? Non esattamente o quantomeno non solo. Qualche milione di barili in più da trasportare sicuramente fa comodo, ma la corsa al barile depresso è stata scatenata soprattutto dall’artificio degli sconti sauditi esattamente come prima del crollo le quotazioni erano state sostenute solo e unicamente dai tagli di produzione dell’Opec più uno, ovvero la Russia. Questo significa che questo salto della domanda non è legato ai consumi, ma alla pura opportunità d’incrementare una riserva strategica, o peggio, alla mera speculazione. Riempire le proprie riserve d’energia a basso costo, infatti, fa comodo a tutti, soprattutto a una Cina già prima importatrice al mondo e con il crollo del 20% d’importazione nel mese di febbraio da recuperare. E quella speculativa? Il puro e semplice trading, compra oggi a sconto, mettilo da parte e tieniti pronto a rivenderlo domani quando le quotazioni risaliranno.
Primi beneficiari di questa situazione? Gli armatori di petroliere, che nella prima metà di marzo da una settimana all’altra hanno visto i noli per le loro navi incrementarsi in media di più del 700%, per certe tratte fino a quasi il 1200%. Per dirla in cifre le Very Large Crude Carrier (VLCC), che trasportano circa 2 milioni di barili, sono passate da un costo medio giornaliero di 33.000 dollari a ben 280.000. Per di più il prezzo depresso del petrolio gli conferisce un doppio beneficio, in quanto ai carichi aggiuntivi da trasportare si somma un costo del bunker, ovvero il carburante, in caduta libera. Un problema che si presenterà presto è la limitata capacità dei depositi in cui parcheggiare tutto questo petrolio in eccesso, un qualcosa che implicherebbe ulteriore stress sul prezzo del barile, ma che paradossalmente potrebbe mantenere forte il mercato delle navi cisterna, perché molte verrebbero utilizzate direttamente per fare storage, ovvero come depositi galleggianti, sottraendo ulteriore offerta per i nuovi carichi da muovere.
La morale della favola è semplice: attenzione a leggere certi dati dello shipping come precursori di una fantomatica ripresa economica, o in questo caso del barile, perché potrebbero essere a dir poco fuorvianti. Resta da vedere se il piano diabolico dei due finti contendenti, Cina e Russia, riuscirà questa volta a far fuori il terzo incomodo e vero bersaglio del conflitto, lo shale americano.
In verità questo scontro potrebbe e dovrebbe durare a lungo per raggiungere l’obbiettivo, almeno per buona parte se non per tutto l’anno in corso, dal momento che secondo Goldman Sachs il 43% delle estrazioni americane sono coperte da hedging fino all’ultimo trimestre del 2020 e quindi al riparo dai prezzi attuali. Forse questo spiega la tempistica scelta dai due giganti concorrenti, amplificare il caos finanziario nella speranza che lo shale americano venga schiacciato ancora prima dal suo debito spazzatura monstre nascosto nei bilanci. Di certo l’interventismo della Fed aveva tra i suoi obbiettivi primari proprio il salvataggio preventivo di questo settore mangia soldi che già era fonte di preoccupazione prima ancora della comparsa del cigno nero pandemico.
Ma torniamo al barile solo per collegarci all’altra faccia della medaglia dei trasporti di materie prime via mare, il carico secco e il suo indice di riferimento principale, il Baltic Dry Index (BDI). L’anno era cominciato male, sia perché l’economia globale era già in dichiarato rallentamento che per l’introduzione dell’obbligatorietà di utilizzo del nuovo costoso carburante a basse emissioni, l’ultimo prodotto “smart” della green economy in salsa di shipping. Bene, della serie non tutti i mali vengono per nuocere, almeno indirettamente anche questo settore in debito d’ossigeno ha potuto trovare un po di sollievo grazie al crollo del barile beneficiandone ampiamente nel ridimensionato costo di consumi di carburante. In realtà non è che sia cambiata molto la situazione, i livelli a cui viaggiano oggi le navi porta rinfusa sono a dir poco preoccupanti, ma c’è da scommettere che gli armatori del dry si augurino che il barile si riprenda il più tardi possibile così da poter limare un po’ i costi.
In effetti ogni aiuto è prezioso, perché dopo la drammatica chiusura cinese di febbraio, le pessime notizie dal resto del mondo non ne vogliono sapere di smettere d’arrivare a ruota e la distruzione della catena di fornitura continua a non dar tregua. Ottimi esempi sono le chiusure delle miniere in Sud Africa o quella annunciata da Vale, gigante minerario brasiliano, del terminal malesiano di Teluk Rubiah, solo per citare alcuni dei casi più estremi. In parallelo dalla Cina arrivano buone notizie, si fa per dire, nel senso che sicuramente sono migliori del mese scorso, ma restano dati che in una situazione normale non farebbero certo saltare di gioia, ma tutt’altro.
Per esempio, la catena di produzione cinese è tornata in moto, ma stiamo parlando comunque di un 65-70% rispetto a quella del marzo 2019. La Cina vuole assolutamente recuperare in fretta la sua piena produttività, ma deve fare i conti con due problemi di tutto rilievo: nuovi ordinativi e fornitura di materie prime. Adesso a causa del virus sono gli altri Paesi, quelli importatori di prodotti finiti come Usa ed Europa, oppure quelli esportatori di materie prime come Sud Africa e Paesi sudamericani, che rischiano di essere bloccati dall’emergenza sanitaria e questo inevitabilmente si riflette sulla ripresa dell’attività produttiva del gigante asiatico. Vista la situazione sarà difficile vedere nel breve termine un’inversione di tendenza per il BDI e in parallelo per gli scambi di merci globali, uno specchio per la crescita dell’economia che non ci sarà, ma verrà inevitabilmente rimpiazzata da una profonda recessione.
Resta da vedere se l’attivismo delle banche centrali sarà all’altezza della situazione, personalmente ho qualche dubbio che non è tanto legato al numero di miliardi che verranno stampati, ma su come verranno impiegati. Direi che per chi segue con attenzione le loro mosse dal 2008 in poi risulta abbastanza chiaro che i loro salvataggi saranno limitati ai mercati finanziari, mentre all’economia reale arriveranno solo briciole. Ma la cosa che trovo più esilarante e deprimente di questa situazione sono le contorsioni dei paladini della green economy in piena agitazione per i loro fondi minacciati dalla nuova e ben più concreta emergenza. Vi ricorderete tutti la facilità con cui la caritatevole von der Leyen si lanciava in ambiziosi progetti di spesa green da 1.000 miliardi o come l’elegante Lagarde voleva mettere a disposizione la stampante monetaria per la stessa nobile causa. Sorprendente vedere come si sono prodigate nell’ultimo mese per salvare l’esistenza di milioni di cittadini europei dalla distruzione del coronavirus. Perdonatemi quindi se conservo un pizzico di scetticismo e, credetemi, sarei il primo che lo scambierebbe volentieri con un po’ di sano ottimismo, ma personalmente al momento, causa virus, nel riscaldamento globale ci spero!