La banca centrale russa ieri in un meeting straordinario ha tagliato il tasso di riferimento dal 14% all’11%. Dopo la decisione il rublo si è indebolito nei confronti del dollaro, ma rimane comunque ai massimi dal 2018. All’inizio di febbraio servivano 75 rubli per avere un dollaro; ieri dopo il taglio dei tassi solo 64. Il giorno prima 55. Quello di ieri è il secondo taglio dopo che la banca centrale russa, in seguito all’invasione dell’Ucraina, aveva alzato il tasso di riferimento dal 9,5% al 20% per contrastare l’indebolimento della valuta. L’istituzione ha spiegato la decisione con la notevole riduzione delle aspettative di inflazione in seguito alle “dinamiche del tasso di cambio del rublo”. Lunedì era stata la stessa banca ad abbassare dall’80% al 50% la quota che gli esportatori erano obbligati a convertire in rubli.



Quello che sta succedendo al di là dei numeri è semplice. Il surplus commerciale russo è esploso perché i prezzi delle materie prime e, in particolare, di gas e petrolio sono volati; l’Europa non ha alternative, a meno di distruggere la sua base industriale, e il resto del mondo ha fame di idrocarburi dopo otto anni di fila, dal 2015 incluso, di investimenti al lumicino sia per una fase di prezzi troppo bassi, sia per l’ostilità della politica che vuole la “transizione”. Tutta l’Africa, l’America Latina, il sud est asiatico e la Cina non solo non hanno sanzionato la Russia, ma sono più che interessati ad assicurarsi forniture a basso prezzo e stabili. 



Oggi i russi non hanno il problema di avere un cambio troppo debole, ma di avere un cambio troppo forte. La domanda di rubli è forte perché con i rubli si possono comprare petrolio e gas, acciaio e fertilizzanti, grano e titanio. Con gli euro tutto questo non si può comprare o si può comprare molto meno di prima in un mondo in cui ogni giorno si legge di un Paese che blocca le esportazioni: dall’India all’Ungheria, dall’Indonesia alla Turchia. La Russia rimane invece un fornitore affidabile e infatti oggi, nonostante la guerra e adeguatamente ricompensata, continua a mandare gas in Europa. 



Mosca si avvia a sostituire i fornitori di beni occidentali. Non è un processo facile dopo qualche decennio di collaborazione con i Paesi europei. Sono iniziate però negoziazioni con la Turchia per sostituire i marchi europei. Ankara ha un’industria “leggera” sviluppata che può aiutare. La Cina rimane la “fabbrica del mondo”. Ieri Putin ha dichiarato che la Russia “sta diventando più forte dopo le sanzioni”. I dati oggettivi sono il rafforzamento del rublo e la banca centrale che in tre mesi ha ritirato buona parte delle misure emergenziali messe in campo dopo la guerra, abbassando i tassi, diminuendo la quota di valuta che gli esportatori devono convertire in rubli e abbassando il prezzo di acquisto dell’oro. Il surplus commerciale, riportava Bloomberg, nei primi quattro mesi dell’anno è triplicato dai 27,5 miliardi di dollari del 2021 a 95,8 miliardi di quest’anno: i valori più alti dal 1994. 

I meeting di “emergenza” con cui la banca centrale si affretta ad abbassare i tassi dimostra che la Russia ha il problema di avere un cambio troppo forte in conseguenza di una domanda di rubli esplosa. In questo scenario è possibile che siano i russi, seduti su materie prime scarse che tutti vogliono, gas e grano su tutte, a selezionare i partner verso cui esportare e a lasciare a bocca asciutta gli altri per evitare di avere una valuta talmente forte da essere ingestibile. Chi rimane fuori deve risolvere il problema della povertà energetica e dei granai vuoti. Una prospettiva che moltissimi Governi vorrebbero con tutte le forze evitare. 

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