L’atteso discorso del presidente della Federal Reserve a Jackson Hole è stata una doccia fredda per chiunque sperasse in un’inversione della politica monetaria. Jerome Powell ha immediatamente ribadito l’obiettivo di un’inflazione al 2% e di essere pronto a ulteriori rialzi dei tassi e a mantenere una politica restrittiva fino a che l’inflazione non si muova verso il suo obiettivo. Powell ha poi spiegato di essere attento ai “segni che l’economia non si possa raffreddare come da attese”. Il Presidente ha notato che la crescita del Pil quest’anno è stata finora superiore alle attese e al suo andamento di lungo periodo: “Gli ultimi dati sulla spesa per i consumi sono stati specialmente robusti”.
L’inflazione è ancora sopra il 2%, l’economia è più solida di quanto si pensasse dopo una lunga serie di rialzi dei tassi; le due opzioni sul tavolo sono o un ulteriore rialzo o il mantenimento di questi livelli. Il mercato ha reagito a questo discorso spedendo il cambio euro/dollaro sotto 1,08 rafforzando la valuta americana.
Gli Stati Uniti sembrano fare una partita solitaria almeno in politica monetaria. In alcuni pPesi emergenti si registrano segnali preoccupanti di scarsità di dollari che hanno condotto al fermo degli impianti per l’impossibilità di procurarsi materie prime e semilavorati (è il caso per esempio del Pakistan). L’alleato europeo è in condizioni peggiori dell’America: la crisi energetica conseguente alle sanzioni contro la Russia, dopo l’invasione dell’Ucraina, ha effetti dirompenti sulla competitività dell’industria europea e rende impossibile qualsiasi progetto di reindustrializzazione nonostante la ristrutturazione in atto delle catene di fornitura globali. L’Europa è vittima della sua debolezza geopolitica e le sue catene di forniture diventano più fragili con il passare dei mesi. Gli Stati Uniti, all’interno del blocco occidentale, risaltano nonostante tutti gli acciacchi e le contraddizioni anche finanziarie. Lo status di riserva globale del dollaro consente, più che ad altri, di spingere sulla leva fiscale e di tenere l’economia a galla più a lungo dei propri competitor.
L’Europa è fragile ed è in un angolo. La politica monetaria americana impone all’Europa e alla sua banca centrale di seguire la via dei rialzi e delle politiche monetarie restrittive oltre quello che le converrebbe. Se così non fosse l’euro si indebolirebbe troppo e il Vecchio continente importerebbe inflazione. Le sensibilità dentro l’Europa su inflazione e tassi di interesse sono ancora oggi diverse tra “nord” e “sud”. Lo vediamo in queste settimane con le richieste, per esempio da parte italiana, alla Bce di fermare i rialzi anche se l’Italia non è ancora in recessione.
Christine Lagarde, nel suo discorso a Jackson Hole, ha da un lato ribadito l’obiettivo di inflazione al 2%, dall’altro ha fatto seguire un lungo paragrafo sulla necessità di “flessibilità” nell’analisi affermando che concentrarsi troppo sui dati attuali e guidare con lo specchietto retrovisore rischiano di rendere “la politica monetaria una forza reattiva invece di stabilizzatrice”.
Le differenze tra Stati Uniti ed Europa con l’industria della seconda colpita duramente dalle sanzioni e la prima più solida e seduta sulla valuta di riserva globale rischiano di creare un cortocircuito. In questo quadro la liquidità fluisce dalla periferia al centro che riesce a scaricare all’esterno parte dei propri squilibri. Ci si aspetterebbe in questo scenario almeno una riflessione sui costi e i tempi della transizione energetica perché l’Europa, in questa fase, di tutto ha bisogno tranne che di un’enorme forza inflattiva e di un ulteriore colpo alla competitività delle sue imprese.
Se la determinazione della Fed facesse salire troppo il dollaro e scatenasse fenomeni di scarsità della sua valuta sui mercati, si assisterebbe, tra l’altro, a fenomeni di volatilità difficili da gestire per chiunque non sia nelle migliori condizioni economiche e finanziarie.
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