Il governo americano ha disperatamente bisogno di denaro, mentre la Cina, grazie al suo colossale surplus commerciale, ne è letteralmente sommersa. Questa è la preposizione principale alla base del ragionamento di chi sostiene che il decoupling finanziario fra Usa e Cina è al momento molto difficile e per molti aspetti poco auspicabile.
Una situazione che sposta a favore della Cina i rapporti di forza e che per certi versi sottende il fatto che la competizione geopolitica sarà ancora determinata dal principio di razionalità declinato nelle forme della logica finanziaria. Dando per buona questa impostazione e supponendo che il Pentagono, il Dipartimento di Stato, la Silicon Valley e Wall Street viaggino su binari diversi, è innegabile che il decoupling finanziario non sia contemplato nell’immediato futuro e il Dipartimento del Tesoro americano per finanziare il suo deficit di 2,3 trilioni di dollari ha bisogno che la Cina investa parte del suo surplus commerciale di quasi 500 miliardi di dollari nei sui Treasury bond.
È opinione ormai diffusa fra molti analisti economici che l’economia globale, che sta provando a uscire dalla pandemia, stia riproponendo in una modalità più favorevole a Pechino le dinamiche della fase precedente: in definitiva per scongiurare l’effetto di una spirale inflattiva bisognerebbe tornare a quello che è stato il principale driver dei processi di globalizzazione, ma questa volta a guida cinese. A fronte di un deficit commerciale che sta peggiorando e del trend rialzista del prezzo delle materie prime, l’economia Usa beneficia doppiamente dell’espansione commerciale cinese, che continua ad alimentare il mercato dei Buoni del Tesoro e che soddisfa la domanda di merci a buon mercato dei consumatori americani.
Dati a cui va aggiunto quello estremamente significativo relativo agli interventi della Banca Popolare Cinese sul mercato dei cambi, affinché il suo surplus commerciale non impatti troppo negativamente sul tasso di cambio del dollaro rispetto allo yuan, in modo da reinvestire i profitti nei mercati finanziari Usa. In definitiva, gli Usa in questa fase dipenderebbero mai come ora dalla Cina, la quale fungerebbe da polo in grado di bilanciare l’instabilità americana.
Se è vero che l’aumento del differenziale fra il tasso nominale dei Treasury e il loro rendimento indicizzato all’inflazione inizia a essere motivo di apprensione per gli investitori, è innegabile che l’acquisto di Buoni del Tesoro Usa non si arresti. Andrebbero però indagate le ragioni di chi compra e quantificato il loro intervento.
Parliamo di acquisti fatti a dispetto delle aspettative sull’inflazione, ma che comunque sono sensibilmente diminuiti negli ultimi mesi. Un dato che reputiamo particolarmente interessante e che può integrare le considerazioni illustrare in precedenza.
Le misure di stimolo adottate dal governo Usa e il conseguente rischio di inflazione hanno portato gli investitori cinesi ad assumere un atteggiamento più prudente nei confronti dei Treasury, dal mese di marzo – quando è calata di 3,8 miliari di dollari – la quota di debito Usa detenuta dai cinesi è diminuita progressivamente, scendendo a un terzo dei 3.198 trilioni di riserve valutarie in loro possesso.
Uno scenario che può prestarsi a una doppia interpretazione. Può essere, cioè, il segnale dell’irreversibile indebolimento dell’economia americana, a cui i cinesi stanno dando il colpo finale, liberandosi progressivamente del loro debito e quindi facendo mancare agli americani le risorse di cui hanno bisogno. Al contempo, però, si potrebbe immaginare che attraverso la leva dell’inflazione gli americani stiano provando a “sterilizzare” il rischio che i cinesi possano usare la loro quota di Treasury come arma geopolitica, minacciando di vendere all’improvviso la loro quota in modo da causare il crollo del dollaro.
Difficile trovare un’unica chiave di lettura a questa complessa fase della storia della finanza, ma si può ipotizzare che sia gli Usa che la Cina temano un’accelerazione del decoupling finanziario, ma al contempo si stiano preparando all’evenienza.
A tal riguardo può essere indicativa la recente dichiarazione del Segretario di Stato Usa, Janet Yellen, che ha definito “poco saggio” il decoupling tecnologico con la Cina, una dichiarazione che ha una conseguenza diretta sulla dinamica degli investimenti esteri negli Stati Uniti e che rende più chiara la strategia Usa. Gli americani vogliono evitare i contraccolpi negativi di un decoupling improvviso e traumatico e sono intenzionati a dettare le regole della transizione in atto, come dimostra la volontà del governo Biden di sottoporre al Senato un disegno di legge che prevede un investimento di 53 miliardi di dollari per riportare la produzione dei semiconduttori in America, provando a spingere il colosso del settore, la Taiwan Semiconductor Manufacturing Corp (TSMC), a costruire uno stabilimento in Arizona.
Al momento è difficile capire chi tenga il coltello dalla parte del manico e quindi indovinare se avrà più effetto il tentativo degli Usa di far pagare ai cinesi il costo della loro ristrutturazione industriale o quello cinese di far pesare il loro surplus commerciale, ma possiamo sostenere che chi detterà i tempi del decoupling e ne determinerà le regole sarà la potenza egemone del XXI secolo.