Nella riunione di mercoledì, il Fomc della Federal Reserve ha deciso di lasciare invariati i tassi di interesse, ma al contempo di ridurre il ritmo del Quantitative tightening (Qt), tramite il quale si drena liquidità dal sistema finanziario. Il Presidente Jerome Powell ha anche spiegato che i dazi commerciali introdotti dalla nuova Amministrazione Trump stanno già avendo effetti rialzisti sull’inflazione, ma è difficile ancora quantificarli.
E a proposito di dazi, Christine Lagarde, durante l’audizione al Parlamento europeo di ieri, ha detto che tariffe americane pari al 25% sulle merci europee sarebbero in grado di ridurre di circa lo 0,3% la crescita dell’Eurozona quest’anno. La Presidente della Bce ha anche aggiunto che i controdazi di Bruxelles potrebbero portare l’impatto negativo sul Pil allo 0,5%. Abbiamo chiesto un commento a Domenico Lombardi, professore di politiche economiche e governance dell’Eurozona alla Luiss, di cui dirige il Policy Observatory.
Cominciamo dalla Fed, che ha lasciato i tassi invariati, ma ha annunciato che ridurrà il ritmo del Qt da aprile. Come va letta questa mossa?
La riduzione dell’intensità del Qt equivale, di fatto, a una misura di espansione monetaria che segnala una preoccupazione diffusa nei vertici dell’Autorità monetaria sulle prospettive congiunturali dell’economia americana. Del resto, la Fed si aspetta un tasso di espansione per l’anno in corso pari a “solo” l’1,7% (era 2,1% a dicembre scorso) e un’inflazione del 2,8% (2,5% lo scorso dicembre). Con l’inflazione addirittura in aumento, la Fed non può ridurre i tassi di intervento. Anzi, le precedenti riduzioni dei tassi rischiano, nell’attuale contesto di diventare un boomerang per la Fed di Powell.
Il segretario del Tesoro Bessent ha detto che non si può escludere una recessione negli Stati Uniti. Quali conseguenze potrebbero esserci per l’economia europea?
Lo ha riconosciuto implicitamente anche il Presidente Trump. Gli indicatori congiunturali vanno deteriorandosi e l’indicatore di incertezza costruito a Stanford mostra un repentino aumento che, sulla base di regolarità empiriche passate, segnalerebbe un rallentamento della produzione e del reddito aggregato. L’impatto sulle economie europee sarebbe significativo poiché agirebbe su una situazione già compromessa a causa di fattori strutturali e congiunturali.
Fra i primi, vi sono le politiche mal concepite della transizione ecologica che hanno messo in crisi la nostra industria, la crisi energetica scatenata dall’aggressione russa dell’Ucraina e il regime sanzionatorio che ne è conseguito. Fra i secondi, vi è anche l’inasprimento monetario resosi necessario per stabilizzare la precedente, crescente inflazione nell’Eurozona che ha agito nella direzione di comprimere la domanda aggregata, riuscendovi.
Quanto deve preoccupare la situazione del debito pubblico americano?
Gli Stati Uniti godono del cosiddetto “privilegio esorbitante” di emettere la valuta di riserva del sistema monetario internazionale. Il permanere di questa condizione di privilegio consente un margine di latitudine nelle politiche economiche di questo Paese a nessun altro consentito. Ma tale privilegio richiede necessariamente che le garanzie a presidio dello stato di diritto non siano minacciate così come le politiche economiche non siano erratiche o dichiaratamente insostenibili.
La Bce ha tagliato le previsioni di crescita per quest’anno (+0,9%) e il prossimo (+1,2%), ma nel Bollettino economico diffuso ieri viene spiegato che lo scenario base delle proiezioni include unicamente l’impatto dei nuovi dazi tra Usa e Cina e non quelli tra Usa e Ue. Considerando quel che ha detto Lagarde al Parlamento europeo, il 2025 rischia di essere un anno di crescita molto ridotta per l’Eurozona. La Bce potrà fare qualcosa?
La Bce verosimilmente allenterà la restrizione monetaria sia a fronte dell’ulteriore deterioramento congiunturale dell’Eurozona, sia perché le restrizioni all’export cinese negli Usa ne determineranno l’afflusso nel mercato europeo generando pressioni al ribasso sui prezzi. La ricomposizione dei flussi commerciali verso l’Ue peraltro metterà sotto ulteriore pressione il nostro apparato industriale.
In questa fase di incertezza è giusto che la Bce continui a non voler dare indicazioni particolari sulle prossime mosse di politica monetaria?
In questo clima di generale incertezza, la Bce potrebbe meglio chiarire le sue prossime mosse. In parte già lo fa, ma occorre sapientemente decodificare gli interventi della sua Presidente nelle conferenze stampa cui partecipa.
Si può dire che il voto sulla riforma del freno al debito tedesco di questa settimana sia stato storico. Pensa che dalla Germania ci si possa aspettare qualche scelta che fino a pochi mesi fa sarebbe stata “impossibile” anche sul fronte della politica monetaria e del debito comune europeo?
L’evoluzione del quadro politico in Germania è particolarmente rilevante e segnala un probabile cambio di passo da parte da parte del prossimo Governo a trazione cristiano-democratica. La prospettiva che la Germania espanda la sua capacità di investimento rappresenta il vero elemento di novità il cui impatto travalica ben oltre i confini della sua economia.
Si sta parlando molto del piano ReArm Europe. C’è effettivamente il rischio che le spese per la difesa, seppur scorporate dal deficit, vadano a incidere negativamente sui costi del rifinanziamento del debito pubblico? Nel caso non sarebbe possibile fare qualcosa per evitarlo?
L’Italia si trova in una condizione peculiare nel contesto europeo a causa dell’elevato debito ereditato. La prudenza fiscale che ha caratterizzato il Governo Meloni ha consentito di ridurre lo spread a livelli particolarmente ridotti. Di qui la grande prudenza rispetto a eventuali, significative spese aggiuntive che dovessero gravare sul bilancio dello Stato. Chiaramente, se il finanziamento venisse gestito in chiave europea, questo allenterebbe, almeno in parte, il vincolo che attualmente grava sulle nostre finanze pubbliche.
(Lorenzo Torrisi)
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