Due modi diversi per reagire all’inflazione. Quarantotto executives di Wall Street hanno fatto cassa, secondo il Wall Street Journal, vendendo titoli per 63,5 miliardi di dollari, il 50% in più di un anno fa. Un modo per anticipare sia l’aumento dei tassi che la nuova tassa in discussione sui capital gains, che prevede, dopo un certo lasso di tempo, un prelievo anche a fronte di plusvalenze non ancora realizzate.
Intanto fa scalpore la notizia che a Buffalo, dopo una dura battaglia, i baristi di Starbuck hanno raggiunto il quorum per costituire una sede sindacale, la prima sui 9 mila locali del colosso Usa. Non è bastata l’offerta di un aumento della paga oraria a 17 dollari da 14 per convincere i lavoratori a rinunciare ad aderire a una union. E il mese scorso ci sono stati scioperi alla John Deere, ai camion di Volvo nonché negli stabilimenti di Mondelez e Kellogg’s. Non capitava dagli anni Ottanta, così come occorre risalire al 1982 per ritrovare l’inflazione al 6,8%, il dato registrato a novembre.
Anche così si misura la distanza tra ricchi e poveri nel mondo che cerca di emergere dalla pandemia. I temi di confronto del resto non mancano: dai guasti dell’organizzazione mondiale del lavoro che hanno fortemente indebolito i dipendenti al “meno Stato” che si è tradotto in minor investimento nelle infrastrutture messe in ginocchio dal virus. O nell’istruzione, diritto negato a un numero crescente di ragazzi non ricchi. E così via. Insomma, per riequilibrare le società indebolite dalla pandemia ci vorrebbe un vaccino contro l’ineguaglianza. Ovvero Stati più forti in grado di imporsi ai privati; strutture pubbliche solide e ben sostenute dalle entrate fiscali. E, più in generale, un forte richiamo all’eguaglianza in un mondo ove tende a prevalere la logica per cui “il vincitore prende tutto”, come si è affermato nel modo virtuale.
Considerazioni che emergono dalla lettura del rapporto sull’ineguaglianza presentato dal WIL (World Inequality Lab), frutto delle ricerche di un centinaio di economisti che, con un lavoro ciclopico, hanno ricostruito la mappa del reddito nel pianeta a partire dal 1820. Un’impresa che nasce sull’onda del successo di Thomas Piketty, l’autore del best seller “Il capitale nel XXI secolo” che ha così potuto finanziare l’opera di una squadra di ricercatori. Intendiamoci. Non è affatto detto che le tesi parigine siano oro colato. Ma fa piacere che il monopolio ideologico dei partigiani del libero mercato sia finalmente messo in discussione. Per di più in un momento di delicata transizione di un pianeta fragile, impoverito dall’emergenza climatica e dalla pandemia.
Una situazione in cui merita meditare sul fatto che, così come emerge dal report:
– Il 20 per cento più ricco della popolazione mondiale controlla il 52 per cento della ricchezza prodotta nel pianeta, mentre la metà più povera si divide solo l’8,5 per cento.
– La ricchezza dei più ricchi nel 2020 è cresciuta di 3.600 miliardi di dollari, una cifra pari a quella spesa dai Governi di tutto il mondo per fronteggiare il contagio.
– Nel 2070 5,2 milioni di capitalisti avranno in mano la stessa ricchezza del 70% della popolazione mondiale. E potrebbe affermarsi la profezia di Marx: la rivoluzione dei proletari in cui sarà confluita l’ex classe media.
La forbice s’allarga quando si passa dal reddito al patrimonio: la metà più povera della popolazione mondiale controlla solo il 2 per cento dei beni del pianeta, pari a soli 2.900 euro a persona. Il 10 per cento più ricco controlla il 76 per cento delle risorse (più di mezzo milione di euro per ciascun adulto).
Grazie al boom delle Borse, alimentato dai bassi tassi, l’1 per cento della popolazione americana si è assicurata il 38 per cento della ricchezza creata dal 1995, contro un miserabile 2 per cento dei più poveri.
È in questo contesto che si torna a parlare di rialzo delle tasse. “Il contagio – si legge nel report – ha senz’altro accelerato la concentrazione della ricchezza a favore dei miliardari e accentuato lo stato di povertà in cui versano molti Paesi emergenti”. Nei Paesi più ricchi la macchina dell’intervento pubblico ha funzionato, ma al prezzo di un forte aumento del debito pubblico. Ma chi pagherà il conto della crisi? Si sceglierà di lasciar correre l’inflazione? Oppure si precederà alla cancellazione del debito attraverso l’arma del fisco?
La tassa del 15% sulle multinazionali votata in sede Ocse è un primo passo, quasi impensabile solo pochi anni fa. La multa di un miliardo ad Amazon fa pensare che certi tabù siano ormai superati. E nessuno si illude più che Facebook sia un’associazione a fin di bene, con un’adeguata responsabilità sociale. Ora si può alzare il tiro: un’imposta progressiva sul reddito sui miliardari, suggerisce il club parigino, potrebbe fruttare l’1,5-2% del Pil mondiale, una cifra sufficiente a centrare gli obiettivi dell’accordo di Parigi sul clima.
Non è la rivoluzione. Semmai il ritorno agli equilibri fiscali della stagione keynesiana. Negli ultimi due secoli, del resto, i rapporti tra lavoro e capitale non sono rimasti immutati. A una fase di forte aumento delle diseguaglianze tra il 1820 e il 1910 è seguita una stagione di ravvicinamento dei redditi, interrotta solo una quarantina d’anni fa quando hanno preso a crescere le diseguaglianze sia a Ovest che nei giganti d’Oriente, Russia e Cina. Le disparità di reddito sono più forti in America Latina e Medio Oriente, ma si sono fortemente accentuate anche in Russia, dove la torta in mano ai miliardari è in pratica raddoppiata negli ultimi dieci anni.
Ma il fenomeno interessa anche la Cina: è diminuita la disparità tra i redditi, ma il patrimonio ormai si concentra tra i super ricchi in proporzioni simili a quelle degli Stati Uniti. La diseguaglianza, insomma, dilaga un po’ ovunque.
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