Ieri la Federal Reserve ha alzato i tassi di 75 punti base come da aspettative; il Presidente Powell ha poi spiegato che la banca centrale porterà i tassi a livelli superiori rispetto a quanto pensava a settembre. “La domanda su quando il ritmo dei rialzi verrà moderato è ora molto meno importante della domanda su quanto in alto andranno i tassi e quanto a lungo bisognerà mantenere una politica monetaria restrittiva”. Con il mercato del lavoro ancora in ottima forma, i consumi che crescono e l’inflazione che ogni mese aggiorna i massimi la Federal Reserve non guarda in faccia a nessuno. Non importa che il rafforzamento del dollaro peggiori l’inflazione nel resto dell’Occidente o nei Paesi emergenti, non importa che i mercati obbligazionari statali o societari stiano segnalando un profondo stress, né che i mercati immobiliari di diversi Paesi si stiano liquefacendo sotto il peso di tassi più alti.



L’unico fattore che potrebbe far invertire la rotta della Fed è la diminuzione dell’inflazione di cui non si vede traccia: in America perché l’economia è ancora forte e il Paese rimpatria produzioni perse da decenni grazie a bassi costi energetici e in Europa perché la crisi energetica non è contingente ma strutturale. La liquidità in una fase di tali stress economici e finanziari torna verso il centro e premia gli Stati Uniti. La crisi nel resto dell’Occidente e il calo della domanda fuori dai confini americani aiutano a risolvere il problema dei prezzi interno. La Fed quindi tira dritto nonostante le crepe evidenti che si sono aperte sui mercati finanziari. Per Powell “nessuno sa se ci sarà una recessione o meno e quanto grave sarà”; i timori di crisi o la crisi già in atto, sicuramente in Europa, per la Fed non sono un motivo valido per cambiare rotta.



L’elenco degli scenari che potrebbero far virare la banca centrale americana non è lunghissimo. Il rallentamento dell’inflazione è uno; l’andamento delle principali materie prime, il ritardo con cui l’aumento dei costi di produzione vengono traslati nei prezzi al consumo non lascia però grandi speranze. La recessione ufficialmente oggi negli Usa non c’è e Powell si può ancora permettere di interrogarsi sul suo arrivo o meno. Il terzo scenario potrebbe essere il collasso dei mercati. Gli ultimi sviluppi, le tensioni che già si vedono suscitano il sospetto che sia stato messo in conto; il dollaro è la valuta di riserva globale e qualsiasi crisi finanziaria si sentirebbe a New York meno o molto meno che da altre parti. Il crollo dei mercati di autunno 2008 in Europa ha portato, qualche anno dopo, alla crisi dei debiti sovrani; il sistema americano è uscito meglio dal fallimento di Lehman.



Chiunque voglia evitare un indebolimento eccessivo della valuta, che peggiora l’inflazione, dovrà in qualche modo provare a seguire la Fed. Per l’Europa questo è un problema sia per gli “spread” che da almeno quindici anni rendono visibili i difetti di costruzione dell’euro e la mancata integrazione, sia perché la crisi energetica sta falcidiando il sistema produttivo dell’eurozona. Qualsiasi crisi finanziaria si sentirebbe prima e molto peggio da questa parte dell’Oceano Atlantico. L’unità dell’Occidente non traspare né dai mercati energetici né, ne abbiamo avuto la prova ieri, da quelli finanziari. Prenderne atto sarebbe già un grande passo avanti.

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