La gara per render possibile la produzione di batterie al sodio compie in questi giorni 50 anni. Allora, a trainare la ricerca erano gli Stati Uniti. Poi negli anni Ottanta la leadership toccò al Giappone. In seguito, per tanti anni, non si seppe più nulla. Salvo scoprire che tra pochi giorni, al prossimo Shanghai Auto Show, diverse case presenteranno auto con batteria al sodio. Il che non stupisce perché l’industria di Pechino ha il quasi monopolio della produzione attuale. Non solo: 16 dei 29 impianti in via di realizzazione nel mondo hanno sede in Cina.
L’industria del Drago, già egemone sul mercato delle batterie al litio, la tecnologia più efficiente per l’auto elettrica, promette così di stabilire un altro primato strategico, in grado di ipotecare il futuro. A fronte del primato Usa (tramite l’alleanza con Taiwan) nelle tecnologie per comunicare, sfruttare l’intelligenza artificiale o il calcolo quantistico grazie a chips sempre più potenti, si profila così un altro monopolio non meno strategico sul futuro della mobilità. E non solo. Anzi, le batterie al sodio, più ingombranti di quelle al litio, per ora presentano non pochi problemi di spazio per le vetture. Ma rappresentano la soluzione ideale per lo stoccaggio di energia, uno dei problemi chiave della transizione energetica. Nel futuro, infatti, le reti elettriche future saranno dominate da fonti rinnovabili intermittenti, vedi l’eolico e il fotovoltaico, che dipendono dalle condizioni atmosferiche e che, perciò, devono essere affiancati da una capacità di stoccaggio che permetta l’immagazzinamento dell’energia che producono in eccesso in alcuni momenti della giornata, in modo da restituirla alla rete nei momenti di necessità.
Finora il problema è stato affrontato con le batterie a litio, assai costose. In un domani prossimo le batterie al sodio potrebbero garantire maggior efficienza a un prezzo notevolmente inferiore. Il primo esempio lo offre la Three Gorges, una società della Cina centrale, ove le batterie di nuova generazione sono in grado di immagazzinare il 20% dell’energia prodotta dai pannelli solari per poi cederla nel momento del bisogno. A garantire il primato cinese è Catl, la società più importante del mondo per le batterie per i veicoli elettrici che ha sviluppato un metodo per realizzare le celle di batterie al sodio con gli stessi macchinari utilizzati per quelle al litio, e anche un modo per utilizzare sia celle al sodio che al litio in un singolo pacco batterie per un’automobile. In questo modo, si riesce a unire il meglio dei due mondi: l’economicità e la resistenza al freddo dei dispositivi al sodio con la maggiore durata di quelle al litio. Catl sostiene di essere pronta iniziare la produzione in massa di questi pacchi batteria misti.
Ma gli sforzi scientifici della Cina nelle batterie al sodio sono guidati dalla Central South University della città di Changsha, dove si trovano anche i laboratori di ricerca della compagnia chimica tedesca Basf che, con grave dispetto di Washington, ha appena annunciato un piano di investimenti in Cina, dove già dispone di trenta stabilimenti, per 11 miliardi di euro. Nei pressi di Shanghai sorgerà una fabbrica più grande di quella di Ludwigshafen. Solo Volkswagen, già presente con 40 stabilimenti, farà di più. E gli Usa non si lamentino: in prima fila, per sfruttare il know-how cinese, continua a esserci la Tesla di Elon Musk. La partita dell’auto elettrica, ormai sposata anche dall’industria Usa, permette del resto alcune riflessioni sul passaggio, assai delicato, dell’economia globale.
– Il primato cinese non nasce per caso. In origine ci fu il boom delle batterie al piombo, adatte alle bici. Poi, alla fine degli anni Ottanta, il Paese fino ad allora con un saldo negativo nell’import/export delle quattro ruote aprì le porte alle tecnologie occidentali con una serie di joint ventures. Oltre a sfruttare con reciproca convenienza la collaborazione con la Germania sull’auto, i cinesi hanno puntato forte sulla filiera solare e fotovoltaica, schiacciando la concorrenza. Poi è stata la volta dell’auto elettrica, più semplice dei modelli a combustione. Per questi ultimi il numero di parti mobili è attorno ai duemila pezzi contro una ventina per i modelli elettrici.
– Nel 2001, anno di ingresso della Cina nella Wto, il Governo ordinò a sei imprese statali di formare un’associazione dell’industria dei veicoli elettrici come piattaforma per lo sviluppo del settore. Preso atto del ritardo rispetto a tedeschi e giapponesi, Pechino ha puntato sullo sviluppo a tappe forzate del business.
– Il sistema, che pure ha fallito in maniera clamorosa ai tempi della pandemia, ha consolidato così un primato destinato a pesare sia in termini di tecnologia che di efficienza, specie nei confronti con l’Europa.
– A livello globale, all’embargo Usa sul fronte dei chips più avanzati si contrappone il dominio cinese sulle terre rare. Il risultato, in entrambi i casi, è un freno allo sviluppo globale, come dimostra l’analisi del Fondo monetario internazionale: il mondo nei prossimi cinque anni salirà solo del 3% annuo, ai minimi dagli anni Novanta, ovvero dalle prime tappe della globalizzazione.
– Di qui i tentativi più o meno goffi dell’Europa per conquistare una pur marcia di avvicinamento all’auto elettrica, resistenza italiana compresa, dimostrazione che manca una regìa in grado di far accelerare il passo all’industria del Vecchio continente. E così sia Berlino che Parigi cercano di strappare a Xi un trattamento di favore, per l’auto o per l’Airbus. Niente di paragonabile all’aggressività dei piani Usa o del centralismo cinese.
– Non illudiamoci: non ci salverà il made in Italy.
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