L’attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941 e l’entrata in guerra degli Stati Uniti costarono alla borsa americana un quarto della sua capitalizzazione nei tre mesi successivi. La perdita fu poi recuperata rapidamente a partire dalla primavera del 1942. Anche la reazione “a caldo” dei mercati all’aggressione russa all’Ucraina è stata di panico, ma lo smarrimento è stato di breve durata. Come è avvenuto quasi sempre dall’inizio degli anni Cinquanta in poi.



Durante la guerra di Corea, che vide coinvolti Stati Uniti, Cina e Unione Sovietica in un clima in cui l’uso dell’atomica fu preso seriamente in considerazione, la borsa americana, a parte una breve discesa iniziale del 15 per cento, accompagnò i tre anni del conflitto (1950-53) con un solido rialzo.

Certo, ogni crisi ha caratteristiche diverse, ma, come abbiamo visto, le reazioni non sono necessariamente al ribasso. Anzi, il “colpo di frusta” di una tragedia quale quella che si profila in terra ucraina può avere effetti profondi, purché l’Occidente abbia chiaro in mente l’importanza della partita in gioco, senza farsi troppe illusioni. 



La crisi in corso non riguarda tanto la sorte di Kiev sul cui prossimo futuro non si possono nutrire troppe illusioni, quanto l’evidente tramonto dell’influenza occidentale nel mondo, dall’Afghanistan abbandonato in fretta e furia dagli Usa a Libia e Mali, territori africani interessati dal ritiro di soldati europei a vantaggio dei mercenari russi della Wagner. L’offensiva diplomatica Usa contro la Cina, intanto, ha per ora solo accelerato l’avvicinamento del Drago a Mosca facendo venir meno, dopo cinquant’anni, i frutti della politica di Henry Kissinger che riuscì a dividere le due potenze “rosse”, cosa che consentì a Ronald Reagan di combattere “l’impero del male” senza temere le mosse di Pechino. 



Al contrario, oggi si profila, cementato dalle cerimonie olimpiche, un asse inedito e foriero di pericolo. Da una parte un Paese militarmente fortissimo, la Russia, impermeabile o quasi alle sanzioni vista l’economia di guerra imposta alla popolazione: oro nei forzieri, valuta nei portafogli degli oligarchi, spesa e debito pubblico quasi inesistente, controllo del consenso affidato alla propaganda contro l’accerchiamento (da sempre un’ossessione della terra degli zar) e al mugugno sotterraneo ravvivato dai tagli alle pensioni imposti per rafforzare l’autarchia di Putin. Dall’altra un Paese, la Cina, in grande espansione economica e tecnologica, ben lieta di attingere alle materie prime del vicino del Nord, del resto assai più fragile. Nel documento sottoscritto da Putin e Xi a Pechino in occasione dell’apertura delle Olimpiadi emerge con chiarezza l’orgoglio delle due potenze: d’ora in poi, è il senso, la mappa del mondo avrà per centro l’Est, non più l’Ovest.

E i nuovi padroni dettano la loro legge: sì alla globalizzazione economica, dicono i cinesi, no all’espansione ai diritti politici, come ingenuamente pensavano i teorici della globalizzazione di fine millennio, pronti a finanziare il decollo di Pechino pur di garantirsi prodotti a basso costo. Nella versione russa, poi, i rapporti internazionali vengono concepiti in maniera hobbesiana, all’insegna di sfere di influenza governate dal principio di forza. Tesi che Pechino ha già applicato a Hong Kong e che potrebbe ripetere a Taiwan, un osso duro perché gli Usa, almeno nei prossimi anni, difenderanno con i denti l’isola dei chips. Almeno finché non avranno spostato le fabbriche dei semiconduttori di Tsmc in California o Texas. Allora potrebbe tornare di moda il Maga, Make America Great Again, promosso da Trump per sostituire una volta per tutte la “vecchia” globalizzazione così cara alla ancora più vecchia Europa, il vero vaso di coccio della congiuntura politica, vittima di concezioni ormai invecchiate.

Non più tardi di venti giorni fa la Commissione europea ha raggiunto un faticoso compromesso sui chips, consentendo a malincuore ad aiuti statali per rafforzare la presenza in un settore in cui l’industria già oggi soffre di una dipendenza drammatica verso l’Asia. Non buttiamo soldi dei cittadini dalla finestra per rafforzare i monopoli, è la tesi della Commissaria Vestager. I chips li possiamo acquistare sul mercato a prezzi più convenienti. La stessa logica che ha portato l’Europa a dipendere sul gas altrui appoggiando la filosofia “nimby” sull’energia, anche in nome di una svolta ambientale che il Vecchio continente, da solo, non riesce a sostenere a fronte di divieti che ormai investono anche le energie rinnovabili. 

Oggi lo schiaffo di Putin, che da anni ha sviluppato un processo industriale perverso, votato all’indipendenza militare a danno del benessere dei cittadini/sudditi, potrebbe risvegliare la coscienza degli europei. Ma non sarà facile anche perché la svolta cade in un momento di pressione sui prezzi che è destinata a tradursi in nuova inflazione “cattiva” con le necessarie sanzioni sul gas. Per la Bce sarà inevitabile chiudere un occhio (o anche tutto e due) di fronte all’ascesa dei prezzi, limitando il rialzo dei tassi senza frenare l’ascesa dell’inflazione. 

In Borsa questo si tradurrà in un andamento a singhiozzo in cui ci saranno (pochi) settori favoriti. Per l’economia vorrà dire almeno un punto di Pil in meno. Niente di drammatico se sapremo crescere più dei prezzi a tutto vantaggio del debito. Ma d’ora in poi sarà più difficile. 

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI