Un anno da dimenticare? Quelli di noi che tra poche settimane riceveranno il rendiconto del proprio fondo di investimento avranno una buona ragione in più per maledire il 2022, iniziato nella speranza di cancellare i postumi della pandemia, ma travolto dalla guerra in Ucraina e dal conseguente rialzo della bolletta energetica.
In cifre, la frenata dei mercati si è tradotta in un calo di valore di 14 trilioni di dollari (ovvero 14.000.000.000.000.000) nelle borse mondiali, un salasso che non ha risparmiato chi si è rifugiato nei cosiddetti porti sicuri: i Bund tedeschi hanno lasciato sul terreno il 24 % del valore, i Treasury americani solo il 16%. Ma nessuna forma di investimento è sfuggita all’esame delle banche centrali che, sotto la regia della Fed, hanno voluto alzare il costo del denaro. Nessuna esclusa visto che, alla fine, anche la Bank of Japan si è allineata al messaggio che ha accomunato tutti i banchieri centrali del pianeta, salvo la Turchia: nel corso dell’anno, calcola Reuters, ci sono state in giro per il mondo più di 300 decisioni di rialzo del costo del denaro. Una stretta che ha avuto conseguenze dolorose: alla perdita del quasi 14% dell’indice Msci World delle borse mondiali (misurato in euro) e alle perdite sui bond vanno aggiunti il deprezzamento dell’euro (del 7% rispetto al dollaro) e la perdita di potere d’acquisto dovuta all’inflazione del 10%.
Ma adesso? Continuerà la stretta o, dopo la primavera, si cambierà registro? Molto, ma non tutto, dipende dalle prospettive della guerra in Ucraina che, per ora, non lascia intravvedere sviluppi positivi. Molto conterà la possibile ripresa della Cina ancora avvolta nelle spire del Covid. Di sicuro, non si ridurrà l’importanza della geopolitica: conterà sempre di più il fattore sicurezza anche a scapito dell’efficienza delle catene produttive e della logistica. La guerra dichiarata all’inflazione, peraltro, ha sconvolto i metri di giudizio. Le notizie “buone”, tipo la revisione al rialzo del Pil americano o la tenuta dell’occupazione, ai massimi in America ma anche nell’Eurozona, diventano “cattive” agli occhi dei mercati, terrorizzati dalla prospettiva di nuove dosi di rialzo dei tassi, dopo gli aumenti più elevato degli ultimi 40 anni.
Dopo decenni di denaro a basso costo per alimentare la crescita, le banche centrali hanno cambiato registro. In maniera brutale e immotivata, accusano in molti. Oggi, poi, ci sono le premesse per un cambio di rotta: scende il prezzo del gas e il petrolio, attorno agli 80 dollari, è ben lontano dai massimi. I noli marittimi, esplosi al rialzo durante la pandemia, stanno rapidamente tornando alla normalità. Per queste ragioni la finanza ha scommesso nei mesi scorsi sull’ipotesi che, pur facendo la faccia cattiva, i banchieri si apprestassero a ridare il necessario ossigeno all’economia. Ma non andrà così. Perché?
Per tentare una risposta bisogna tornare indietro, almeno fino alla terapia del denaro a basso costo adottata dagli Usa nel 2008/09 e dalla Bce epoca Draghi. Allora, per necessità, le banche centrali hanno favorito l’espansione dell’economia, specie con gli acquisti di titoli di Stato. Il gioco si è fatto però assai più pesante dopo lo scoppio della pandemia con interventi (spesso esagerati) che hanno generato deficit pubblici record. Nell’esercizio fiscale 2020, ad esempio, il deficit degli Stati Uniti era di 3.132 miliardi di dollari a cui nel 2021 si sono sommati altri 2.776 miliardi di dollari. Nello stesso periodo la Bce ha aumentato per due volte il volume del programma di acquisti per l’emergenza pandemica “Pepp”, che investe prevalentemente in obbligazioni di emittenti pubblici, per un totale di 1.850 miliardi di euro. Di qui l’esplosione del debito: in Usa alla fine del 2021 il debito complessivo di Stato, imprese e famiglie era pari a circa il 290% del Prodotto interno lordo, mentre nell’Eurozona era di poco inferiore al 270%. All’inizio del millennio, il debito complessivo in entrambe le regioni non arrivava al 200% del Pil.
È un equilibrio instabile con cui devono fare i conti Jerome Powell e Christine Lagarde: se le banche centrali aumentano troppo i tassi d’interesse, rischiano di mettere a repentaglio la stabilità finanziaria di un sistema complessivamente fragile. Più risoluta sarà la lotta all’inflazione, più alta la probabilità di recessione e così sale il rischio che in futuro la politica monetaria debba intervenire nuovamente in aiuti di Stati, imprese e famiglie.
Di fronte a questo bivio le banche centrali hanno scelto di non ripetere l’esperienza degli anni Settanta, così simili a quanto stiamo vivendo. Gli ingredienti negativi di quella stagione agitata da due shock petroliferi ci sono tutti: Guerra fredda, mercato del lavoro rigido, shock da offerta intermittenti, crisi energetica, il retaggio di politiche fiscali espansive, inflazione endemica e tentativi inutili di controllo amministrativo dei prezzi: non manca nulla al repertorio di allora quando, in un paio di occasioni, la banca centrale Usa allentò le briglie del costo del denaro troppo presto con il risultato di far ripartire la corsa dei prezzi più violenta che mai in un momento geopolitico di grande complessità negli anni che vanno dal ritiro dal Vietnam all’esplosione della rivoluzione iraniana. Una stagione turbolenta che obbligò Paul Volcker, il Presidente della banca centrale, ad una violenta operazione per stroncare l’inflazione con tassi record.
È questo l’esempio che le banche centrali hanno deciso di seguire. Negli anni Ottanta la ricetta servì a salvare il primato del dollaro, già in crisi per la dichiarazione di non convertibilità con l’oro, e a mettersi sotto pressione i concorrenti, a partire dall’Unione Sovietica. Oggi la scena si ripete, con l’obiettivo di stroncare sul nascere (vedi gli accordi tra Cina e Arabia Saudita) i tentativi di creare un’alternativa al sistema. Dietro la lotta alla “mala pianta” dell’inflazione ci sono ragioni geopolitiche destinate a durare almeno fino alla campagna elettorale Usa del 2024.
E l’Italia? La svolta di Volcker, all’inizio degli anni Ottanta, colpì l’Italia nel momento peggiore. Complice il terremoto dell’Irpinia, il Paese diede il via a una grande stagione di spese, investimenti ma non solo, che provocò la voragine della finanza pubblica, all’origine della crisi della Prima Repubblica. Oggi, grazie all’Europa, una politica del genere non è più possibile, anche se crescono le tentazioni stataliste. Ma non sarà facile la navigazione del 2023.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI