Oro e petrolio da fine novembre stanno avendo comportamenti e dinamiche eccentrici, e tale fatto diventa ancora più iconico perché parliamo delle due materie prime che giocoforza sono alla base degli equilibri mondiali, in quanto è dalla loro tenuta che con un immane effetto a cascata regge la finanza internazionale e quindi gli scambi commerciali tra Paesi.



Per dare un’immagine immediata di quel che si parla, basti pensare che nella notte tra il 3 e il 4 dicembre scorsi, sui mercati asiatici l’oncia d’oro ha toccato il record assoluto di ogni tempo in dollari statunitensi, giungendo a toccare i 2.115 dollari l’oncia per il mercato spot e 2,135 dollari circa per il future febbraio 2024; l’incredibile importanza di tali quotazioni risiede nel fatto che a 2.650-2.700 dollari per oncia, il dollaro americano perderebbe lo status di valuta di riserva mondiale e di divisa benchmark per gli scambi internazionali, e tutto questo entro due anni a partire da questo dicembre del 2023. Teniamo poi mente il fatto che tali valori sono stati raggiunti con i tassi della Fed del 5,5%, dove si ricorda che i record avutosi soprattutto col Covid nell’agosto 2020 e pari a 2.075 dollari l’oncia erano stati ottenuti a tassi Fed pari allo zero.



Qual è dunque la prima implicazione dei record del 4 dicembre scorso?

La prima evidenza è che gli Stati Uniti non potranno più avere tassi di interesse prossimi allo zero, in quanto è parametrabile un prezzo dell’oro a 2.450-2.500 dollari l’oncia perlomeno e, quindi, vicinissimo come valore al saltare del banco per la finanza a stelle e strisce, con lo stock che più di tutti non sarebbe più controllabile e gestibile, nella specie il debito pubblico della nazione; è evidente pertanto che tassi di interesse che mediamente non potranno più scendere, se non a prezzo di rischi enormi, sotto il 2,5-3% comportano strette sulla domanda e, soprattutto, sulla crescita del debito pubblico e sulla persistenza di disavanzi.



Va infatti saputo con molta dovizia che al Comex di Wall Street a New York, di fatto la borsa mondiale delle quotazioni dell’oro, gli scambi avvengono tra mercato spot e derivati con l’incredibile leva di 1 oncia di oro fisico a fronte di circa 550 once in derivati; in parole povere, il Comex risponde ai desiderata e agli indirizzi del Tesoro americano e della Fed; l’altra gamba di tale controllo, e lo abbiamo esternato già varie volte, è lo Lbma di Londra che fissa alle ore 10:00 e alle ore 15:00 di tutti i giorni lavorativi il prezzo statistico medio dell’oncia fisica di oro valido per tutto il mondo; anche tale particolare borsa è soggetta a manipolazioni, soprattutto quando si tagliano gli estremi superiori di oscillazioni dei prezzi; detto da un punto di vista complessivo, l’oro, dalla caduta nel 1991 di ciò che restava dell’Unione Sovietica, diventa la polizza assicurativa globale del dollaro a stelle e strisce in un nuovo mondo globalizzato con la sede principale degli scambi finanziari a Wall Street.

L’altro attore di questo intervento è il petrolio, che lo ribadiamo l’ennesima volta, è il king maker reale di tutti i mercati dei beni e dei servizi mondiali, dato che, fatto pari a 100 il consumo mondiale di energia, il petrolio pesa per circa 35, avendosi in seconda posizione il carbone con 30 e il gas in terza con 19 circa; però, oltre al fatto che il petrolio è la fonte di energia più consumata e ciò sarà valido sicuramente per 15 anni ancora, è di fatto anche anelastico nell’uso in tanti comparti; si pensi alle industrie dell’acciaio e dell’alluminio fino ad arrivare ai trasporti di ogni tipo civili e militari, su acqua terra e aria; quindi questa materia prima, da il la di base fondante agli attuali equilibri economici e geopolitici mondiali; da tale punto di vista, non sfuggirà pertanto a nessuno che a partire dal Covid-19, la globalizzazione dei mercati dei beni e dei servizi è andata mano a mano scemando, fino ad arrivare all’attuale ordito di una Russia sommersa di sanzioni del G7, tutte aggirate con le triangolazioni più disparate e fantasiose, e di due guerre in corso estremamente pericolose, dispendiose e tragiche, e ci riferiamo a Ucraina e striscia di Gaza.

In tali condizioni, il petrolio non è più solamente la materia prima più importante per le relazioni economiche internazionali, ma è divenuto di fatto un’arma di guerra, tra Stati e schieramenti contrapposti. Qui arriviamo al quid della questione, e cioè com’è possibile che da fine ottobre scorso dai circa 82 dollari medi del barile Wti si sia giunti nella giornata del 6 dicembre anche a 69,50 dollari al barile; in sostanza, con ciò si vuole affermare che tale ultimo prezzo inizierebbe a essere quello di un mondo che è tornato a essere ordinato e in pace, sebbene non ai livelli della globalizzazione degli anni 2018 e antecedenti; come si spiega quindi tale discesa tenendo mente al fatto che il 30 novembre scorso l’Opec+ nella sostanza portava il taglio assoluto dei barili prodotti per tutto il primo semestre 2024 al totale di 5,9 milioni, con un effettivo incremento aggiuntivo di 900.000 barili, tenendo in vigore fino tale data tutti i precedenti tagli, anche quelli volontari di Arabia Saudita e Russia?

Nei fatti, tale discesa di prezzo è una speculazione finanziaria degli hedge funds basata sul fatto che in ottobre la produzione mensile di petrolio da parte degli Usa ha toccato il record assoluto dei 13,2 milioni di barili giornalieri, che a dati attuali è la più elevata mai fatta registrare da qualunque altro; nel caso nostro, il qualunque altro sono solamente Arabia Saudita e Russia, con record rispettivi di circa 10,9 milioni per i sauditi e 11,9 per i russi.

Aggiungiamo che tale record assoluto degli Usa è stato ottenuto con 1,3 milioni abbondanti in più della pregiata produzione petrolifera dell’Alaska e non di quella scadente che deriva dal fracking dello shale gas; questi 1,3 milioni giornalieri in ottobre di petrolio alaskiano sopravanzano anche gli aggiuntivi 900.000 barili di taglio dell’Opec+ del 30 novembre; non va poi dimenticata la questione complessa e difficoltosa del petrolio del Venezuela, che se riuscisse a essere implementato per il mercato internazionale in capo a 3 anni, investirebbe i mercati mondiali di circa 8 milioni di barili aggiuntivi di petrolio, compromettendo in tal guisa lo status di monopolista dell’Opec+.

Quindi, non esistenza di collaborazione tra i raggruppamenti e gli Stati, ma politiche di potenza tese allo scontro economico di questi mesi, da cui si palesa la politica della Casa Bianca, e cioè attrarre il Venezuela nella propria orbita e nell’intervallo di questi 2 o 3 anni di buco dare fondo a tutte le riserva dell’Alaska per contrastare in primis la Russia e poi a seguire l’Arabia Saudita.

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