Il 15 gennaio alla Casa Bianca, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il Vicepresidente della Repubblica Popolare Cinese, Liu He, firmeranno l’accordo che sancisce la “prima fase” delle nuove relazioni commerciali tra Stati Uniti e Cina. Il luogo prescelto per la firma e l’altissimo livello dei due protagonisti che suggelleranno con le loro firme l’accordo indica l’importanza che Usa e Cina attribuiscono all’intesa raggiunta dopo venti difficili mesi di negoziati che hanno portato più di una volta i due Paesi (e il resto del mondo) sull’orlo di una guerra commerciale. È, infatti, un accordo di grande importanza, anche se se ne conoscono solo le linee e i contenuti generali principalmente tramite le sintesi diramate dall’Office of the US Representative for Trade Negotiations, il cui direttore Robert Lighthizer ha condotto i negoziati per parte americana. 



È un accordo che ha implicazioni molto vaste sul futuro del commercio internazionale in generale, non unicamente sulle relazioni commerciali tra Washington e Pechino. Quindi, merita di essere analizzato con cura. In sintesi, il trattato delinea la “prima fase” di un’intesa in due fasi: la seconda è ancora in fase negoziale. In estrema sintesi, l’accordo “congela” i dazi americani nei confronti di numerosi prodotti cinesi ai livelli (elevati) dell’estate scorsa e, in cambio, la Cina fa ampie concessioni in materia di proprietà intellettuale, trasferimento di tecnologia, tasso di cambio tra renminbi e dollaro, e agricoltura. Si impegna, ad esempio, a importare l’equivalente di 16 miliardi di dollari di derrate e altri prodotti agricoli americani l’anno nei prossimi tre anni. Viene anche istituito un organo giurisdizionale-arbitrale per mediare vertenze relative all’interpretazione dell’accordo tra i due contraenti. 



Può sembrare che, nei rapporti bilaterali con Pechino, Washington l’abbia avuta buona su tutta la linea. In tal modo, infatti, il Presidente Trump presenta l’accordo ai propri elettori (attuali e potenziali). Non è, però, così: le “concessioni” cinesi nascondono la definizione di un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti in materia di proprietà intellettuale e trasferimento di tecnologia, la stabilizzazione del cambio favorisce ambedue e gli impegni in materia agricola riflettono il crescente fabbisogno alimentare di un Paese di proporzioni gigantesche che per oltre trent’anni ha svuotato le campagne spingendo una politica di industrializzazione forzata. 



In breve, l’accordo definisce una partnership tra le due maggiori economie, tra le due superpotenze mondiali. Con implicazioni complesse per il resto del mondo, specialmente per l’Unione europea, relegata al ruolo di gruppo “minore” in fase di aggregazione tra Stati: a Bruxelles e nelle capitali Ue ci si dovrebbe ricordare del coro del terzo atto di Adelchi di Alessandro Manzoni: “l’un popolo e l’altro sul collo vi sta”.

Nel breve periodo, la conclusione dell’intesa è da considerarsi, senza dubbio, positivamente anche per l’Ue perché, ponendo un freno alla guerra commerciale tra le due maggiori economie, impedisce il suo dilagare nel resto del mondo con inevitabile caduta del commercio e della crescita internazionale. Occorre, però, soppesare gli aspetti di medio e lungo periodo sull’Ue, sull’Italia e sull’Organizzazione Mondiale del Commercio-World Trade Organization (Omc-Wto).

Cominciamo da questo ultimo aspetto perché a mio avviso, è il più importante. Per come è stato negoziato e concluso, l’accordo Usa-Cina è il trionfo del bilateralismo e si pone al di fuori delle regole e dalle prassi dell’Omc-Wto (e di quelle del General agreement on tariffs and trade, che ha preceduto l’Omc-Wto nella liberalizzazione del commercio mondiale). Queste regole hanno come cardine due principi di base: la non discriminazione (ossia la clausola della nazione più favorita estesa a tutti i membri dell’Omc-Wto che non abbiamo lo status speciale di Paese in via di sviluppo) e la reciprocità. 

Occorrerà esaminare il testo dell’accordo (quando disponibile) per valutare se la regola della reciprocità viene mantenuta. Di certo, non lo è quella della non discriminazione che è stata la vera molla nella liberalizzazione e nell’espansione del commercio mondiale negli ultimi 75 anni. L’accordo – come si è detto – definisce una partnership tra due superpotenze e non è “aperto” agli altri membri dell’Omc-Wto. Anzi, proprio mentre si impedisce alla funzione giurisdizionale- arbitrale dell’Omc-Wto di operare, come analizzato su questa testata il 9 dicembre, se ne istituisce una bilaterale Usa-Cina. La paralisi della funzione giurisdizionale Omc-Wto ha implicazioni immediate per l’Ue e per l’Italia: blocca il procedimento nei confronti dei sussidi alla Boeing, proprio mentre, in forza di una sentenza recente sui sussidi all’Airbus, gli Stati Uniti stanno applicando pesanti “dazi di compensazione” nei confronti dell’agroalimentare di Stati Ue che con l’Airbus non c’entrano nulla. Tra questi, in barba della vantata amicizia tra Trump e “Giuseppi”, c’è pure l’Italia.

Che la Presidenza Trump preferisca un approccio bilaterale (nella convinzione di poter così ottenere risultati migliori per “gli americani”) è noto: proprio nei giorni in cui veniva messo a punto l’accordo Usa-Cina, il Congresso americano ratificava a larghissima maggioranza la revisione della zona di libero scambio nord americana (Nafta) tra Stati Uniti, Canada e Messico – revisione le cui clausole danno all’accordo un più spiccato orientamento bilaterale. Occorre ricordare che nella tradizione americana, il Partito Democratico è stato sempre molto più incline al bilateralismo (e al protezionismo) del Partito Repubblicano. Ora sono ambedue sulla stessa linea.

È utile ricordare che l’Ue ha in atto una cinquantina di accordi bilaterali, gran parte dei quali tuttavia con Paesi in via di sviluppo, un tempo colonie degli Stati dell’Unione. Stanno, però, ora proliferando accordi bilaterali di altra natura. Ad esempio, si sta consolidando una vera e propria rete di accordi commerciali specifici (aerei, armi, scienza, tecnologia) tra la Francia e l’India. Alcuni commentatori la leggono come il tentativo franco-indiano di definire un asse tra Parigi e Delhi contrapposto a quello tra Washington e Pechino. Anche in questo caso si è al di fuori delle regole Omc-Wto e anche di quelle della politica commerciale comune dell’Ue.

È doveroso chiedersi se questa fuga dal multilateralismo verso il bilateralismo potrà assicurare una crescita del commercio, e dell’economia, internazionale analoga a quella degli ultimi 70 anni o se, invece, risulterà in una frammentazione del commercio, e dell’economia, internazionale che potrebbe essere dannosa per tutti.