Pochi anni dopo la fine vittoriosa della guerra di indipendenza contro il Regno Unito, le tredici ex colonie in terra americana protagoniste della Rivoluzione arrivarono a un passo dalla rottura. Addirittura uno Stato, il Vermont, intavolò trattative per unirsi al Canada sotto il Governo inglese. La ragione principale delle liti tra gli ex alleati riguardava il costo del conflitto: alcuni Stati, a partire dal New England, avevano pagato un duro prezzo alla lotta contro le truppe di Sua Maestà, accampate fino all’ultimo sul loro territorio. Altri, come il Maryland, si erano limitati a un sostegno esterno.
Al momento di dividere il costo della guerra e del via libera agli investimenti pur leggeri necessari per dare il via al nuovo Stato, vennero alla luce i diversi interessi, così profondamente differenti da far temere sulle sorti degli Stati Uniti. Fu allora che, per la fortuna del Paese, spuntò la stella di Alexander Hamilton, uno dei padri della nazione a stelle e strisce, tornato alla ribalta grazie a un fortunatissimo musical di Broadway. Hamilton, ministro del Tesoro, riuscì a imporre la condivisione tra le ex colonie del debito pubblico accumulato nel corso della guerra. Non fu una scelta facile o pacifica, osteggiata fino all’ultimo dai democratici, che temevano la creazione di monopoli statali altrettanto severi dell’amministrazione britannica. Ma alla fine prevalse il “momento Hamilton”, la vera pietra miliare su cui sono nati gli Stati Uniti d’America.
Di momento Hamilton per l’Europa ha parlato, ancor prima della guerra di aggressione di Putin all’Ucraina, il neo-Cancelliere tedesco Olaf Scholz, convinto della necessità di un salto di qualità sulla strada dell’unità del Vecchio Continente. La crisi sul fronte orientale gli ha offerto l’occasione per un salto in avanti, a partire dalla Nato, a cui Berlino contribuirà con un massiccio aumento delle spese militari. Ma, a giudicare dalle incertezze emerse in sede Bce e dalle obiezioni di una parte dell’Ue (Germania in testa), la strada per il momento Hamilton europeo è ancora lunga.
La Banca centrale europea ha compiuto un piccolo passo a favore dell’espansione monetaria, nonostante il rallentamento della crescita. E ha ribadito la volontà di alzare i tassi entro fine anno, una mossa che ha il sapore del suicidio economico se prenderanno corpo i fantasmi della recessione. Per carità, siamo di fronte a un passaggio tattico per far digerire ai banchieri del Nord nuovi passi verso la flessibilità, se e quando saranno necessari. Meglio non giocare tutte le carte prima di capire la direzione dell’inflazione e l’impatto sulla crescita. Ma la rigidità dei banchieri del Nord mal si concilia con un momento politico eccezionale. L’Europa quale area del mondo autonoma e indipendente o nasce adesso oppure non se parlerà più per un bel pezzo.
Il che impone un grande sforzo sul fronte dell’energia, per sottrarsi all’egemonia di Mosca. Non è solo questione finanziaria, semmai si tratta di capire dove vuole andare un Continente dominato dai veti “nimby”, dove sindaci, magistrati e larghe fette della popolazione si sono finora schierate come un sol uomo persino contro gli investimenti nelle rinnovabili. Un Continente che, finora, ha preferito “rivolgersi al mercato” per comprare l’energia o i microchips altrui piuttosto che investire in nuove fabbriche, insidiose dal punto di vista ambientale o costruire campioni europei. Peccato che il mercato, così come l’abbiamo conosciuto nel momento di crescita della globalizzazione, non esiste più. O rischia di essere una trappola mortale in cui ci siamo infilati con grande incoscienza: non più tardi di tre mesi fa, la Germania era pronta a far decollare il gasdotto Nord Stream 2 con la Russia, oltre che un accordo commerciale a tutto tondo con la Cina. Il tutto mentre Russia e Turchia spazzavano via Italia e Francia dallo scacchiere libico.
Inutile illudersi: l’Europa arriva all’appuntamento con il cambio di paradigma, dalla globalizzazione a un sistema di aree in forte competizione, in una condizione di svantaggio. Ma, come ha notato Mark Rutte, Premier olandese, resta “un’area incredibilmente forte” sul piano tecnologico, economico e culturale. Nonché l’unico posto al mondo dove si rispettano alcuni principi fondamentali di eguaglianza e di democrazia, valori che possono, se ben comunicati, fare la differenza anche in un’economia di guerra. Perché, al di là delle illusioni, siamo già in un’economia di guerra in cui non è solo in gioco il destino dell’Ucraina, ma anche gli assetti geopolitici globali (Africa e Sud America compresi) in competizione con Russia, Cina e magari India.
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