La mega svalutazione della lira turca delle ultime settimane può essere letta come un altro capitolo della guerra commerciale in atto tra Stati Uniti contro Russia e Cina. L’estremità del fenomeno suggerisce che siamo oltre il punto di non ritorno e che la ristrutturazione delle catene di fornitura globale non è ancora terminata. I rapporti tra i due “mondi” sembrano destinati a diminuire con robusti incentivi messi in campo da entrambe le parti. Dato che da un paio di decenni la Cina è la fabbrica del mondo si apre una fase di grandi cambiamenti e soprattutto una lunga fase di rilocalizzazione delle produzioni, o di una buona parte, da questa parte della cortina. È un’ondata di investimenti colossale che si dispiegherà nel medio lungo periodo. Nel breve periodo l’inflazione sarà inevitabile sia per la crisi della catene di fornitura, sia perché lo spostamento della produzione in Cina ha determinato effetti deflattivi da questa parte del mondo.



Ovviamente c’è anche il lato buono della medaglia. Intercettare questa ondata vorrebbe dire aprire o ampliare fabbriche, riacquistare know-how, aumentare il numero di occupati in settori che offrono posti di lavoro “stabili” e ben pagati. Se non si può più produrre in Cina è lecito aspettarsi una pletora di volenterosi che si candidino. Sul piatto ci sono decine di miliardi di investimenti, posti di lavoro, benessere e sovranità sostanziale. L’Italia, che è la seconda manifattura d’Europa, avrebbe in teoria molto da dire in questa partita: non mancano imprese innovative, imprenditori capaci, università tecniche e così via. Altrimenti non si spiegherebbe perché nonostante tutto e una storia politica degli ultimi 30 anni non esattamente esemplare l’Italia abbia ancora l’attuale saldo commerciale.



Per intercettare gli effetti di questo riposizionamento non basta la buona volontà. Le multinazionali che devono decidere dove aprire gli stabilimenti vogliono personale qualificato, regole anche fiscali certe, prima ancora che conveniente, e poi, ovviamente, energia economica e prevedibile. Senza questo c’è spazio solo per attività che non richiedono capitale fisso e che non potranno mai essere la soluzione per un Paese di oltre 50 milioni di abitanti che vorrebbero almeno mantenere il livello di benessere attuale. I “nuovi” lavori pubblicizzati sui grandi quotidiani nella realtà possono occupare solo un numero limitato di persone. Anche gli Stati Uniti, che sono leader con Google, Facebook e compagnia non potranno mai contare su questo settore per risolvere la domanda di lavoro di oltre 100 milioni di americani.



Un Paese che vuole rilanciare la propria economia ed è consapevole non solo dei rischi, ma anche delle opportunità di quello che sta accadendo, dovrebbe affrettarsi per realizzare le condizioni senza le quali le imprese non prosperano, e anzi chiudono, e senza cui è impossibile attrarre nuovi investimenti soprattutto quelli messi in campo dalle multinazionali globali. Il problema di un fisco e di una burocrazia a misura di impresa e, ancora di più, quello dell’energia non è solo una questione di perdite di tempo o rincaro delle bollette, ma i fondamenti su cui si costruiranno i successi e gli insuccessi economici dei prossimi dieci anni. Al di fuori di un percorso serio su questi temi ci sono solo successi effimeri che durano lo spazio di una finestra di indifferenza dei mercati per gli effetti di politiche fiscali e monetarie espansive. Quando questa finestra si chiude rimane molto poco.

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