Bank of America, in un report pubblicato qualche giorno fa, ha notato l’anomalia di una fase in cui sono saliti sia il dollaro che le materie prime che il settore tecnologico. Questa circostanza si è verificata solo cinque volte negli ultimi 60 anni: nel 1969, 1983, 1999, 2016 e 2021. Di norma, per esempio, quando il dollaro sale scendono le materie prime. La banca americana spiegava che due di questi anni, il 1983 e il 2021, sono stati anni di boom indotti da stimoli (nel 1983 con i deficit gemelli di Reagan e nel 2021 nel post-Covid); il 1999 è stato l’anno del boom tecnologico avvenuto, non per caso, con una politica monetaria meno restrittiva di quanto sarebbe stato consigliabile; il 1969 e il 2016 sono stati anni di cambiamento del paradigma nel primo caso con l’inizio della stagflazione che ha caratterizzato gli anni ’70 e nel secondo con l’inizio del processo di deglobalizzazione.



Il 2024 è ancora un anno di stimoli, di boom dei mercati azionari, di accelerazione del processo di deglobalizzazione e forse dell’inizio della stagflazione perché l’inflazione, sicuramente negli Stati Uniti, è dura a morire. Il debito pubblico americano sale di 1.000 miliardi a trimestre e Bank of America nota che i Governi occidentali altamente indebitati “hanno promesse da mantenere, guerre da finanziare… significa inflazione più alta, tassi più alti e tasse più alte… fino al probabile salvataggio delle banche centrali del settore pubblico”.



In questi mesi si discute della divaricazione dell’economia europea rispetto a quella americana e di come la seconda abbia un’inflazione più alta mentre l’Europa sembra avviarsi più rapidamente all’obiettivo del 2%. Da questa parte dell’Atlantico si discute anche di piani di rientro del deficit e i Governi assumono impegni di contenimento della spesa nei confronti dell’Unione europea. Intanto il deficit e il debito americani occupano le analisi preoccupate degli amministratori delegati delle principali istituzioni finanziarie a stelle e strisce. Si potrebbe essere tentati di osservare con distacco le vicende economiche americane per rimanere concentrati su quello che “succede da noi”; la loro inflazione, il loro deficit, il loro mercato del lavoro e le loro politiche economiche non sono le nostre e quindi meritano attenzione fino a un certo punto.



Il rafforzamento del dollaro, valuta di riserva in un mondo che si complica, l’incremento dei prezzi delle materie prime e il boom del settore tecnologico però non si fermano sulla costa orientale degli Stati Uniti. Le politiche monetarie e fiscali americane producono un’inflazione che arriva anche in Europa; gli Stati Uniti sono un motore di inflazione che viene importata anche da Paesi con performance economiche meno lusinghiere o che non si possono permettere il lusso di spendere quei deficit. Il prezzo della benzina riflette anche le politiche monetarie e fiscali americane; lo stesso si può dire delle performance borsistiche del Vecchio continente che alimentano un’inflazione che si scarica sui settori più contigui ai mercati finanziari come, per esempio, l’immobiliare.

Per l’Europa gli “stimoli” americani, i deficit e le condizioni finanziarie sono un problema perché esportano inflazione anche in un continente con un’economia meno brillante e senza materie prime. L’Europa contribuisce così a pagare le politiche fiscali americane dal basso di un’economia che annaspa.

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