Nella nota lettera agli azionisti del 24 marzo, Larry Fink, Ceo della più grande compagnia di gestione di fondi d’investimento, BlackRock, avvertiva che la reazione occidentale alla decisione della Russia di invadere l’Ucraina costituiva un cambiamento dell’ordine economico globale, cioè “la fine della globalizzazione che abbiamo conosciuto nelle passate tre decadi”. Una reazione giustificata, scriveva, ma che avrà dei costi concreti e duraturi. Sintesi chiara ed efficace di un problema nato alcuni decenni prima del febbraio 2022 e che non si esaurisce nelle battaglie per l’Ucraina.
Intanto, la guerra in Ucraina continua, con la Russia che lancia l’assalto finale alla Azovstal di Mariupol, estraendovi probabilmente un certo numero di estremisti e neonazisti ucraini oltre ai loro consiglieri militari occidentali, e gli Stati Uniti e alleati europei che continuano ad armare la difesa degli ucraini perché Putin sia sconfitto “fino all’ultimo ucraino”. Sul piano delle ritorsioni si accrescono i rispettivi embarghi, con Putin che firma un decreto che vieta le transazioni con soggetti ed entità straniere oggetto di sanzioni russe e l’Unione Europea che sta varando il sesto pacchetto di sanzioni alla Russia e alle importazioni di petrolio. Sembra di tornare agli anni 30, a quell’illiberale “Europa dei muri” nella quale ciascuno disegnava il proprio campo di fortificazioni medievali per impedire il progresso (dell’altro).
Cerchiamo di capire il significato delle parole di Fink, di cosa si tratta e soprattutto delle conseguenze e delle possibili vie d’uscita.
Le globalizzazioni sono state condizioni create per permettere i movimenti umani e le attività di scambio per il progresso economico e sociale in un clima di stabilità garantita in spazi prevalentemente terrestri più o meno vasti nelle diverse epoche. Le globalizzazioni dell’antichità esistevano attorno a imperi continentali centralizzati e stabilizzanti, perché militarmente più forti e quindi regolatori assoluti nel loro spazio, ad esempio la pax romana e la pax sinica, che in qualche caso avevano anche una proiezione marittima limitata. L’ultima globalizzazione con queste caratteristiche fu quella spagnola del XV-XVI secolo che fu “inabissata” e sostituita da un’isola minore, l’Inghilterra, capace di recidere il legame che la teneva ancorata alla terraferma donandosi titanicamente al mare e diventandone l’egemone, il “pesce-balena”, per i successivi quattro secoli.
Questa globalizzazione moderna era affatto universale e rivoluzionaria perché impose per la prima volta una talassocrazia mondiale sulle ataviche potenze terrestri. In comune con l’antichità, essa manteneva salda la centralità imperiale e la pax britannica si fondava sulla capacità regolatoria, impositiva e sanzionatoria, garantendo la stabilità con la forza delle cannoniere che cavalcavano le onde degli oceani.
Dopo il XVIII secolo, è su queste basi che nacque quel che chiamiamo “Occidente”, cioè l’ordine liberale internazionale fondato su relazioni aperte e su regole tra gli Stati. Esso fu eurocentrico fino alla Prima guerra mondiale, quando la sede dell’Occidente fu trasferita negli Stati Uniti, l’isola maggiore che ha preso in eredità l’impero transoceanico inglese allorquando l’isola minore si rivelò incapace di preservarlo nei confronti degli imperi continentali che a mano a mano si stavano affacciando sulla scena mondiale.
Il centro della globalizzazione divenne gli Stati Uniti, un’aquila di mare dalla testa bianca che dapprima impose il proprio ordine sull’emisfero occidentale – chiamato ordine euro-atlantico, di cui l’Europa era un’appendice benché di valore – per poi trasformarsi in squalo che deve necessariamente nuotare senza interruzione nei sette mari che domina per poter respirare, mordendo di tanto in tanto le terre del Rimland per nutrirsi.
Questa globalizzazione fondata sulla pax americana era un progetto geopolitico che prevedeva due sole regioni mondiali: la regione transatlantica che si doveva estendere alla Russia e gran parte dell’Eurasia; e la regione indo-pacifica che doveva inglobare oltre al Giappone e l’Australia anche la Cina. In quest’ottica, era ed è essenziale impedire alla Russia di ripristinare la propria soggettività in Europa, e alla Cina di ripristinare la propria in Asia, ovvero “liquidare la Russia e isolare la Cina” (Caracciolo 12.04.2021). Il meccanismo normativo e istituzionale di questa complessa operazione è stato l’espansione del diritto internazionale pattizio, la diffusione della diplomazia multilaterale e l’impiego della filosofia politica di stampo moralistico-idealistico e democraticistico, che si ergevano come un blocco ideologico alle spalle della potenza militare, tecnologica e finanziaria di Washington. La tecnica operativa è stata di globalizzare, cioè annullare gradualmente le specificità culturali, storiche, politiche, etniche e religiose nel grande melting pot che doveva progressivamente omogeneizzare e “normalizzare”, sul modello gerarchico americano, entrambe le regioni globali. “Liberalizzazione e integrazione” era l’imperativo politico “democratico” che permetteva di consolidare al centro, in un’oligarchia capitalistica, gli evidenti benefici che si producevano con lo sfruttamento delle risorse naturali e del lavoro a basso costo nei paesi più poveri del mondo. Oltre agli Stati Uniti e all’Europa anche la Cina ha beneficiato della globalizzazione.
L’apice della globalizzazione americana si è avuto negli anni 90, durante la presidenza di Bill Clinton, quando famosi economisti divennero advisors del presidente russo Eltsin – gli ideatori della “shock therapy“, Jeffrey Sachs per la macroeconomia e Andrei Shleifer per le privatizzazioni – che a causa della miopia politica euroatlantica condusse alla più grave recessione della Russia dai tempi della rivoluzione. Diversamente da quanto avvenne per la Polonia, l’Occidente rifiutò di offrire sostegno finanziario alla Russia, mentre le sconsiderate politiche sulle privatizzazioni selvagge e i “prestiti per azione” saccheggiarono il patrimonio pubblico russo (imprese, risorse naturali, immobili, servizi) secondo uno schema progettato nel 1995 che ha permesso la creazione degli oligarchi che poi finanziarono la rielezione di Eltsin in cambio di grandi azioni in aziende di proprietà dello Stato a prezzi ridotti. Negli anni successivi è emerso che Shleifer e sua moglie avevano un grande conflitto di interessi in Russia che imbarazzò non poco l’establishment politico ed accademico americano. Anche l’Ucraina, dalla presidenza Kuchma del 1994 seguì la via russa per la macroeconomia e le privatizzazioni con gli stessi drammatici risultati di spoliazione dello Stato da parte di oligarchi e politici. I casi di corruzione e conflitto di interessi in Ucraina hanno toccato l’apice nel 2018, quando da investigazioni per evasione fiscale condotte dalla Fbi, e tutt’ora in corso, emerse il nome Hunter Biden, figlio dell’attuale presidente, in relazione a investimenti in Ucraina iniziati nel 2014.
Mentre l’ascesa politica di Putin nel 1999 in Russia evitava il collasso dello Stato, un primo flesso della globalizzazione americana si è manifestato nel 2001 seguito dal secondo, più grave del primo, nel 2006-2008. Il combinato disposto dei due flessi e delle connesse reazioni “imperiali” ha portato al disfunzionamento del sistema globale, con due effetti indesiderati: il primo, la rinascita della Russia a partire dal 2014 grazie a una ritrovata convergenza di interessi, almeno economici, con l’Europa (la temuta saldatura pacifica tra l’Eurasia e la penisola europea); e, il secondo, la crescita sostenuta e inarrestabile della Cina nel mercato globale (la temuta emergenza di un serio concorrente commerciale che si espande in un reticolo globale di comunicazioni terrestri rappresentato dalla Bri, Belt and Road Initiative, e di alleanze).
L’interdipendenza centralizzata sugli interessi euroatlantici iniziava a mostrare le prime crepe: l’emergenza di Russia e Cina, ma anche dei Brics, segnava l’inizio di una tendenza di inversione dei flussi della globalizzazione americana. Nel 2020, si è aggiunta la pandemia che ha diffuso paure irrazionali verso gli stranieri, particolarmente cinesi, e verso l’interdipendenza minacciata dalla fragilità delle linee di rifornimento mondiali. Le spinte verso l’auto-sufficienza e l’autarchia erano in realtà precedenti alla pandemia e all’invasione russa dell’Ucraina: si pensi alle politiche commerciali (imposizione di dazi e tariffe) iniziate da Trump e continuate da Biden.
È a questa già declinante globalizzazione americana che il citato Fink si riferisce, indicandone la fine nel febbraio 2022 in coincidenza con le reazioni occidentali (embarghi e sanzioni) all’operazione militare della Russia in Ucraina. D’altra parte, gli studiosi di geopolitica sanno che voler essere una potenza mondiale talassocratica, gli Stati Uniti, implica un furore antropologico con costi enormi per il mantenimento di una presenza costante, popolando insediamenti civili e militari d’oltremare, che senza una congiuntura favorevole rischia di essere insostenibile.
Se non si vuole trovare una via diplomatica per fermare la guerra in Ucraina – dal 2021 gli Stati Uniti hanno scelto di ignorare ogni concreta richiesta della Russia – ci aspettano rischi molto più grandi. Purtroppo, anche gli Stati europei, e ancor peggio le istituzioni dell’Unione Europea, non hanno fatto nulla per trovare una soluzione diplomatica, scegliendo, invece, di seguire le ragioni dell’arroganza anti-russa e le logiche di guerra anglo-americane. Finora, anche le parole di papa Francesco – “la guerra è una follia!” – sono state ignorate. Secondo Jeffrey Sachs ,”un embargo totale su petrolio e gas probabilmente getterebbe l’Europa in una recessione, provocando danni pesanti e strutturali all’Europa. Le sanzioni andrebbero revocate come parte di un accordo di pace. La guerra in Ucraina è terribile, crudele e illegale, ma non è la prima guerra del genere. Gli Stati Uniti sono stati anche coinvolti in innumerevoli avventure irresponsabili. L’Ue dovrebbe muoversi in modo molto più deciso e autonomo dagli angloamericani per favorire un accordo di pace. Sia Biden sia le autorità di governo europee pagheranno un alto prezzo politico, in una situazione di alta inflazione e difficile quadro macroeconomico”.
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