Da qualche mese a questa parte si è affermato un convincimento generale sull’economia cinese che sarebbe afflitta da una crisi di sovraccapacità industriale, con conseguente incapacità di esportazione. Ciò ha generato una raffica di giudizi sommari sulla presunta crisi dell’economia cinese e sui conseguenti rischi per l’Occidente.



A ben considerare i fatti, emergono purtroppo non pochi luoghi comuni, che meriterebbero una diversa attenzione e un modo nuovo di guardare al tema.

Contrariamente a un meme oggi molto popolare tra i media europei e americani, non c’è un aumento delle esportazioni cinesi dettato da “sovraccapacità” industriale. Le esportazioni cinesi verso i mercati dei Paesi sviluppati sono infatti stagnanti da anni, ma sono invece raddoppiate esportazioni cinesi nei Paesi del Sud del mondo.



Queste esportazioni della Cina verso il Sud globale non sono solo aumentate con volumi senza precedenti, ma sono anche indirizzate verso ogni regione (Asia, America Latina, Africa, Medio Oriente, Nord Africa e Asia centrale) con tassi di crescita omogenei, senza particolari distinzioni tra un’area di destinazione e l’altra, a conferma di un trend condiviso e radicato. Quali le ragioni?

Paradossalmente, una grossa spinta alle esportazioni cinesi è generata dalla triangolazione del traffico commerciale determinata dalla decisione di Trump del 2019, che imponeva tasse del 25% ai circa 200 miliardi di dollari di importazioni cinesi. La Cina ha così cominciato a spedire componenti e beni strumentali in Messico, Vietnam, India e altri Paesi del Sud del mondo, Paesi le cui catene industriali assemblano le forniture cinesi in prodotti finiti destinati poi alla vendita proprio negli Stati Uniti.



Il risultato è che gli Usa sono oggi dipendenti, come mai è accaduto prima, dalle catene di approvvigionamento cinesi, come è stato più volte ribadito da analisi e studi della Banca Mondiale, e dal Fondo monetario internazionale.

In sostanza, le esportazioni della Cina verso il Sud globale non sono altro che, sotto mentite spoglie e con un ritardo di circa due mesi, le importazioni Usa dal Sud globale, dopo la lavorazione industriale o l’assemblaggio. In tal modo, le esportazioni della Cina verso il Sud globale sono passate da circa 90 miliardi di dollari al mese nel 2020 a 150 miliardi di dollari al mese di oggi, con un delta di 60 miliardi di dollari al mese, di cui circa la metà rappresentano la quota più elevata di importazioni statunitensi da Paesi terzi ovvero la quota indirettamente imputabile al nuovo regime tariffario. Quindi, la strategia dell’elusione tariffaria attraverso l’esternalizzazione delle catene di approvvigionamento cinesi al mondo in via di sviluppo rappresenta e giustifica circa la metà della crescita delle esportazioni della Cina verso il Sud globale. L’altra metà proviene comunque da settori industriali in cui la Cina vanta competenze e posizioni di dominanza ormai da alcuni anni. Si va dalla produzione di veicoli elettrici ai pannelli solari, dalle infrastrutture digitali alle infrastrutture di trasporto e alle apparecchiature elettroniche.

Ciò che sorprende è il fatto che uno sviluppo del genere e l’analisi delle ragioni che lo hanno determinato non abbiano mai fatto sorgere qualche dubbio alla maggior parte degli analisti e degli editorialisti americani. Il risultato, a oggi, è che le valutazioni e le parole d’ordine lanciate nelle policy campaign che hanno generato quelle scelte si sono rivelate errate.

Ma cos’ha generato questo equivoco? A monte vi era un postulato ricorrente radicato negli Usa e condiviso da buona parte delle posizioni europee, ovvero che la Cina fosse in declino, se non in crisi, e che le restrizioni americane sull’esportazione di chip avanzati avrebbero frustrato le insidiose ambizioni tecnologiche della Cina, fino a obbligarla a giungere a più miti consigli. Praticamente l’intera comunità politica americana decise che l’ascesa della Cina come potenza mondiale poteva essere frenata da un giro di vite delle esportazioni di tecnologia e che ciò avrebbe tenuto la Cina giù.

Al contrario, la Cina ha lavorato pazientemente, da un lato intorno alle sanzioni tecnologiche e, dall’altro, intorno alle tariffe statunitensi. Oggi il sommesso silenzio degli analisti e degli editorialisti americani sull’argomento, più che esprimere ignoranza o pigrizia, riflette la riluttanza ad ammettere che il catastrofico fallimento di lettura politica del fenomeno è stato forse determinato da ragioni di politica interna americana più che da valutazioni geopolitiche sul futuro degli assetti economici mondiali. Eppure i segnali erano anche abbastanza chiari.

Il primo shock alle scelte americane è arrivato dopo che l’Amministrazione Trump decise di bloccare l’esportazione internazionale di chip avanzati a Huawei, nel tentativo di impedire la produzione di chip compatibili con 5G, progettati in Cina, ma fabbricati a Taiwan.

Dal momento che la factory taiwanese usava tecnologia americana, gli Usa si appellarono alla giurisdizione extraterritoriale. Senza l’accesso a chip avanzati – pensarono gli analisti statunitensi – la Cina non sarà mai in grado di far esplodere la propria rete nazionale 5G. Il risultato è che cinque anni dopo la Cina ha 3 milioni di stazioni-base 5G funzionanti, mentre gli Stati Uniti ne hanno solo 100.000 (il 68% delle stazioni-base del Giappone, il 46% della Corea del Sud e il 28% dell’Ue), grazie al fatto che Huawei ha imparato a costruire stazioni-base avanzate con chip di vecchia generazione fabbricati in Cina.

Il secondo shock è arrivato, nell’ottobre 2022, dopo che Washington ha esercitato l'”opzione nucleare” di limitare l’esportazione di chip e attrezzature avanzate a tutte le aziende cinesi, non solo Huawei. Un anno dopo, Huawei ha lanciato uno smartphone 5G, il Mate 60, con un chip 5G avanzato, prodotto in Cina grazie a un processo di produzione industriale alternativo che i regolatori americani avevano ritenuto impossibile.

Oggi la comunità politica statunitense non può ammettere le conseguenze di scelte errate e tentenna nel fornire le chiavi di lettura da dare al successo industriale cinese. Da qui, e non da altro, la motivazione del meme popolare secondo cui la Cina ha creato “sovraccapacità” nella propria produzione industriale e per questo minaccia il mondo con un “secondo shock della Cina”, come ha scritto il Wall Street Journal (The World Is in for Another China Shock) il 3 marzo scorso.

Ma il problema di un “secondo shock cinese” non è quello della sovraccapacità industriale della Cina. Al contrario, la Cina sta esportando meno, non di più, verso i mercati sviluppati con cui compete direttamente. Mentre sta esportando molto di più nel Sud globale, che ha una domanda praticamente illimitata di veicoli elettrici, pannelli solari economici e infrastrutture a banda larga.

Sorge a questo punto sorge il dubbio che promuovere, come fa il WSJ, il concetto di un “secondo shock della Cina” possa essere meno imbarazzante rispetto al dover dar conto di ciò che i dati commerciali semplicemente rivelano. Evidentemente hanno prevalso a monte valutazioni politiche che non hanno consentito di comprendere appieno ciò che stava accadendo sul piano tecnologico e commerciale.

Certamente non è una partita facile e resta da vedere cosa accadrà sulle tante altre partite aperte che certamente condizioneranno la geopolitica dei prossimi anni: dal ruolo dell’Occidente agli scenari che si determineranno con il dopo-guerra ucraino, dalla penetrazione dei Brics alle pressioni per una de-dollarizzazione dell’economia mondiale.

Intanto, l’amministrazione Biden ha annunciato, lo scorso 14 maggio e con decorrenza 1° agosto 2024, l’innalzamento dal 25% al 100% delle tariffe imposte alle auto elettriche e alle altre importazioni dalla Cina.

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