Il ritorno in grande stile della spesa pubblica deciso dall’amministrazione Biden, che ha finanziato un budget da 6mila miliardi di dollari, ha evocato scenari che ricordano il New Deal, ma ha anche acceso il timore di una spirale inflazionistica, la cui dinamica ricorda quella che ha seguito la Seconda guerra mondiale, quando l’aumento della disponibilità della “domanda repressa” causò un aumento dei prezzi del 20%.
L’incremento sostenuto della domanda potrebbe forzare la capacità produttiva oltre i livelli precedenti la pandemia, e quindi causare un aumento sostenuto dei prezzi che è legato alla grande attrattività delle materie prime, alimentata dall’interesse di banche d’affari e fondi di investimento che puntano sul fatto che la ristrutturazione dell’apparato produttivo americano e gli investimenti nelle infrastrutture richiederanno grandi quantità di acciaio e rame. Una tendenza che sembra inarrestabile e che per molti analisti può essere arginata solamente dal comportamento virtuoso del governo cinese, che ha recentemente intensificato i suoi sforzi per stabilizzare il prezzo delle materie prime ritenute strategiche, a fronte di un rialzo dei prezzi al consumo che in Cina ha toccato le vette più alte degli ultimi 12 anni.
Nelle più ottimistiche previsioni questa strategia di contenimento avrebbe degli effetti positivi sul prezzo delle materie prime e su quello delle merci che le principali economie mondiali importano dalla Cina. Ha ragione chi sostiene che la lotta all’inflazione del governo cinese è il frutto delle esperienze del passato quando, cioè, negli anni Ottanta la liberalizzazione dei prezzi, ispirata alle teorie monetariste in voga in quel periodo, portò a un brusco rialzo dei prezzi che contribuì ad aumentare le tensioni sociali che poi sfociarono nell’89 nei fatti di piazza Tienanmen.
La leadership cinese sembra aver imparato bene cosa comporta l’inflazione dovuta a una crescita tumultuosa e senza controllo come quella che si ebbe negli anni 80. Con Deng Xiaoping, quando allentò il controllo sui prezzi, l’inflazione crebbe del 20%. Anche per questo motivo la Cina vede nell’inflazione il suo problema maggiore e sembra intenzionata ad adottare tutte le misure possibili per combatterla, ma al momento non è chiaro come risponderà al dilemma che la lotta all’inflazione comporta.
Le politiche di repressione finanziaria relative alla speculazione sulle materie prime potrebbero non bastare e l’apprezzamento dello yuan sembra essere un passaggio obbligato per chi vuole abbassare il prezzo delle importazioni e quindi contenere l’inflazione. Una scelta rafforzata dal fatto che l’incertezza della fase in corso richiede la stabilità monetaria, che però implica una trasformazione strutturale dell’economia cinese. Negli ultimi venticinque anni l’offerta di moneta è cresciuta più in Cina che negli Stati Uniti, la sua economia orientata all’esportazione ha rappresentato un punto di riferimento per tutto il periodo di crescita e per la fase successiva alla crisi del 2007-2008, fungendo da stabilizzatore di tutte le turbolenze finanziarie. I cinesi esportavano, aumentavano i loro risparmi e attiravano capitali e investimenti da tutto il mondo. Un processo virtuoso reso possibile anche da uno yuan svalutato e da una fase della globalizzazione che rendeva le merci cinesi particolarmente convenienti e al contempo – come capita a tutte le economie prevalentemente export led – esportando deflazione.
Ma le cose stanno cambiando. Se lo yuan forte rende il dollaro più debole, c’è da chiedersi come reagirà l’economia cinese a un ridimensionamento considerevole delle sue esportazioni. Da tempo parliamo di una ristrutturazione in senso domestico del sistema economico cinese, ma le ricadute sulla competitività delle esportazioni di uno yuan forte sono ormai evidenti anche a Pechino, che sta iniziando a contenere l’apprezzamento della sua moneta nazionale attraverso l’incremento massivo di riserve di valute straniere.
Al momento sembra difficile pensare che Pechino raggiunga la stabilità del suo sistema dei prezzi, anche perché non possiamo escludere che gli Usa utilizzino il rischio dell’inflazione come leva della sua azione geopolitica, una prospettiva che potrebbe spiegare l’atteggiamento della Fed, che per Larry Summers è interessata a creare un clima che giudica di “pericolosa compiacenza” nei mercati finanziari più che a combattere l’inflazione. In definitiva, gli Stati Uniti generano inflazione e la Cina potrebbe pagarne il prezzo.
Recentemente un attento osservatore come Alberto Forchielli ha parlato di un assalto dei colossi finanziari al risparmio privato cinese, che vale oltre 17 trilioni di dollari. Società come Goldman Sachs, JP Morgan e BlackRock stanno acquistando quote sempre maggiori delle attività patrimoniali delle principali banche cinesi, un’attività di cui il sistema finanziario cinese, alle prese con il crescente problema del debito, ha sempre più bisogno.
Il problema della lotta all’inflazione, l’apprezzamento dello yuan e il crescente peso della finanza straniera iniziano a rappresentare gli aspetti di un dilemma la cui soluzione comporterà una trasformazione radicale dell’economia e della società cinese.
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