L’opinione pubblica, distratta dalla campagna elettorale, non ha probabilmente degnato di uno sguardo l’allarme lanciato dal capo economista della Banca Mondiale, Indermit Gill. Eppure il segnale, basato sull’esame dei tre quarti dei Paesi associati, è inequivocabile: il mondo si sta avviando verso la stagflazione, ovvero la miscela perversa di inflazione e stagnazione economica. A una velocità impressionante, che non si vedeva dall’inizio degli anni Settanta: a gennaio la previsione di crescita del pianeta era del 3,8% per l’anno in corso. A luglio si era scesi al 2,9%. Il rischio è che le prossime stime del Fondo monetario si fermino allo 0,5%. O anche meno. Ovvero in terreno negativo a fronte dell’inflazione quasi ovunque in forte avanzata.
Basterà a fermarla la medicina della forte ascesa dei tassi ventilata dalla Fed? Il rischio, secondo la Banca Mondiale, è che la medicina possa ammazzare il paziente. Mica gli Stati Uniti, che godono di buona salute, bensì quasi tutti gli altri, alle prese tra l’altro con la rivalutazione del dollaro che amplifica l’effetto dell’aumento delle materie prime, energia in testa.
Date le premesse, l’autunno si presenta non poco complicato per i Paesi europei.
– La Banca centrale europea dovrà dare l’addio, controvoglia, alla politica dei tassi bassi per limitare l’impatto dell’ascesa del dollaro che, tra l’altro, sta provocando il deflusso di capitali dall’Eurozona.
– Questa politica comporterà non pochi problemi di finanza pubblica: gli “scostamenti” di bilancio, vuoi per venire incontro a famiglie e imprese, vuoi per salvare le vittime della guerra del gas (i colossi come la tedesca Uniper) avverranno a costi più alti.
– Anche in Europa, come negli Stati Uniti, l’inflazione comincia a provocare le prime tensioni sui salari (vedi Lufthansa).
Negli Stati Uniti l’ascesa dei tassi presenta meno “danni collaterali” perché il Paese può contare sull’indipendenza energetica e su una leadership tecnologica indiscutibile. Questo permetterà all’Amministrazione Biden di tentare una rimonta elettorale in vista del voto di midterm (8 novembre) che, a detta degli osservatori, è possibile anche se non facile. Ma:
– la benzina, il vero metro per giudicare l’inflazione da parte delle famiglie americane, è rientrata sotto la soglia dei 4 dollari per gallone;
– l’occupazione tira, i consumi pure. Il Presidente Biden, di fronte al rischio di scioperi nei trasporti o nel manufacturing in grado di destabilizzare il quadro, ha riscoperto la sua vocazione di leader della Sinistra Usa convocando le parti per evitare gravi conflitti;
– sotto la pressione del conflitto in Ucraina e del confronto con la Cina, il dollaro, sostenuto dai tassi alti, sta riaffermando la sua leadership incontrastata. La valuta Usa è usata nel 40% degli scambi commerciali mondiali, ovvero quattro volte tanto il peso dell’economia Usa, mentre il suo peso nelle riserve delle varie banche centrali è del 59% in calo rispetto al 71% del 1999, ma comunque assai al di sopra di euro (20%), yen (10%) e sterlina (il 5%) e dello yuan cinese (il 2,9%).
In questo contesto l’Italia dovrà badare a non ripetere gli errori di inizio anni Ottanta, quando la spesa pubblica (complici gli investimenti post-terremoto, ma non solo) prese il volo proprio quando il presidente della Fed Paul Volcker avviava la guerra contro l’inflazione. Fu l’inizio del degrado dei conti pubblici, balzati sopra il 100% del Pil, e di tanti guai.
Concederemo il bis dopo le lezioni? Difficile che l’Europa ce lo permetta. E poi, come dimostra la tenuta di buona parte del sistema Italia, il Paese è troppo sano per affidarsi solo alle medicine dei sostegni e dell’assistenza. Non dimentichiamoci che, come diceva Milton Friedman, nessun pasto è gratis. Checché ne pensi Giuseppe Conte, il sindaco del rione Gratuità.
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