Un piccolo e prezioso volume del Mulino firmato da Salvatore Rossi, oggi presidente di Tim e per lungo tempo Direttore generale della Banca d’Italia, mostra le luci e le ombre che accompagnano la storia e lo sviluppo del nostro Paese al quale assegna il compito di recuperare lo spirito rinascimentale per il bene proprio e la gioia dei consumatori che ne apprezzano lo stile e i prodotti.
“Breve racconto dell’Italia nel mondo attraverso i fatti dell’economia”, s’intitola il libro. E nel penultimo capitolo si riassumono i fatti a beneficio del lettore che non sa in prima battuta se trarre motivi di pessimismo o di ottimismo da quello assume perché le ombre sono più delle luci, ma quest’ultime si presentano così vivide da ben controbilanciarne il peso.
Come sempre, è il disvelarsi dell’enorme potenzialità del nostro apparato produttivo guidato da imprenditori geniali e familistici, generosi e sospettosi, coraggiosi e opportunistici. Insomma, quel che sappiamo, ma messo in un ordine tale che vale la pena di andarlo a scoprire. Un riassunto delle puntate precedenti che ci immette nel prossimo futuro.
Tanto per cominciare persiste da noi il problema della bassa occupazione, specialmente nel Mezzogiorno e tra le donne e i giovani. Per quanti sforzi siano fatti, è un nodo che non si scioglie. Poi siamo afflitti da una bassa produttività per tutta una serie di negligenze che hanno scavato un solco in questo campo tra noi e i nostri principali concorrenti. Così non va.
Diversamente da quanto s’immagini, non siamo una nazione di grandi risparmiatori. Anzi, considerando quanto stia invecchiando la popolazione è questa una notizia che ci dovrebbe far preoccupare. In più, non cala la diffidenza dei mercati finanziari internazionali nei confronti dello Stato che deve remunerare i sottoscrittori del debito pubblico più dello stretto necessario.
Sul fronte delle vendite all’estero i manufatti superano di gran lunga i servizi e tra questi i più sofisticati, come i finanziari e i bancari, hanno un rilievo marginale. Infine, la taglia media delle nostre imprese è molto piccola mentre invece la globalizzazione da una parte e l’avanzamento tecnologico dall’altra vorrebbero avere a che fare con aziende grandi e ben strutturate.
Nonostante tutto questo, tuttavia, restiamo creditori netti nei confronti del resto del mondo. Vuol dire che il volume in dollari delle cose vendute nel tempo è superiore a quello delle cose nel frattempo acquistate. I nostri crediti totali, dunque, eccedono i debiti a conferma del fatto che continuiamo a fabbricare oggetti che ci vengono richiesti da ogni parte del globo.
Questa circostanza fa sì che un Paese di taglia media come il nostro, il 25° per numero di abitanti, diventi il decimo per valore aggiunto e sieda stabilmente nel consesso (il G7) che raggruppa i sette più potenti sotto il profilo industriale. In Europa siamo secondi solo alla Germania nella manifattura e sono centinaia le nicchie di mercato nelle quali eccelliamo in maniera assoluta.
Dunque, abbiamo nel nostro Dna qualcosa che ci differenzia dagli altri. Qualcosa che ci rende speciali e che ci tiene a galla nonostante i tanti motivi che ci spingono in basso. Con l’aggiunta che il modificarsi delle catene del valore (il modo in cui si combinano i fattori su scala internazionale per realizzare un prodotto) potrebbe premiare il nostro saper fare.
Brutti accidenti come pandemia e guerre stanno rivoluzionando rapporti e collaborazioni. Non ci si approvvigiona più dove il prezzo è basso, ma dove l’interlocutore è affidabile per non correre il rischio di restare senza materiale intermedio da immettere nel ciclo della lavorazione. Nella negatività del momento, una buona occasione che dovremmo saper cogliere.
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