Phil Hogan, il neocommissario europeo al Commercio, si è assunto il ruolo del guastafeste nel giorno degli applausi all’accordo sui dazi tra Cina e Usa. Parlando a Washington, Hogan, irlandese di Kilkenny, ha detto che l’accordo, sotto il profilo economico, non vale granché, ma è solo un’arma pre-elettorale in mano a Donald Trump. E se le intese puniranno i commerci con l’Ue, Bruxelles non esiterà a ricorrere alla Wto. Lo stesso giorno il Washington Post annunciava che il presidente era pronto ad applicare l’aumento delle tariffe del 25% sulle auto europee nel caso che Francia e Germania non denunciassero l’accordo nucleare con l’Iran. Due esempi che confermano come la tregua sui commerci tra i due Grandi non è l’anticamera della pace, bensì un episodio di un conflitto destinato ad allargarsi e a incidere sulle scelte politiche, oltre che economiche, dei Paesi più sensibili alle dinamiche dell’interscambio. Come l’Italia.
Nel relativo silenzio dei mass media (specie quelli del Bel Paese), sta prendendo piede la svolta politica dell’Ue. Bruxelles ha ormai preso atto della svolta americana. Washington mira ad accordi bilaterali snobbando le organizzazioni multilaterali, così svuotando di valore i pilastri della politica atlantica degli ultimi settant’anni. Il cambio di rotta coincide con un momento molto delicato per l’Europa, visti gli effetti della crisi sul portafoglio e sullo spirito degli europei. La stessa Angela Merkel ha sottolineato che, in questa chiave, la Brexit suona come un campanello d’allarme per l’intera Comunità.
In questa chiave, va letta la reazione che, Francia e Germania in testa, sta prendendo corpo in Europa. Si spiega così l’accelerazione dei piani “verdi” dell’Ue, cioè i mille miliardi di euro che l’Europa, mobilitando anche privati e governi nazionali, intende mettere in campo sulla protezione ambientale, in piena controtendenza con l’America di Trump e le sciagurate politiche australiane. A muoversi per prima è stata la Germania, che ha messo sul piatto (con colpevole ritardo, peraltro) 44 miliardi di euro per accelerare l’uscita dal carbone. Qualcosa si muove anche sul fronte delle tecnologie per ridurre il gap che si va accumulando sull’intelligenza artificiale e su altri fronti (le batterie, ad esempio) nei confronti di Usa e Cina.
E così, dopo decenni di “porte aperte” all’ingresso di capitali terzi, specie cinesi, la Comunità prova ad alzare barriere, come del resto chiedono le imprese: Thierry Breton, commissario Ue al mercato unico, difesa e spazio, ha sollecitato una revisione delle regole dell’antitrust favorevole allo sviluppo dell’economia europea.
In questa ricerca di un’identità europea si profila un test importante per valutare la capacità di azione della Comunità: la partita del 5G, la tecnologia che dominerà non solo la trasmissione dei dati, ma lo stesso funzionamento dell’economia nei prossimi anni. Guai a cedere alle lusinghe cinesi di Huawei, ammonisce Washington. Ma in cambio di cosa?, replica una parte consistente della politica e della lobby industriale, specie tedesca. Non solo la proposta cinese sembra più conveniente sul fronte del prezzo, ma il costo di un no alla scelta del 5G cinese potrebbe costare molto caro all’industria dell’auto tedesca che piazza in Cina 7 milioni di auto all’anno. Perché rinunciare allo sviluppo di questo mercato, vitale per l’economia tedesca, per aderire a una richiesta degli Usa, che solo in questo caso si ricorda della solidarietà atlantica? L’ora delle scelte cadrà entro poche settimane, segnate anche dal conflitto sulla web tax tra Francia e Stati Uniti, dalle divisioni rispetto all’embargo sull’Iran e le tante questioni che solleverà la Brexit, occasione per avvicinare Londra e Washington a danno della solidarietà europea.
La pace, meglio dire la tregua sui dazi tra Usa e Cina, non ha chiuso la partita dei commerci. Semmai ha inaugurato una fase nuova in cui l’economia sarà solo uno dei terreni del confronto a tutto campo tra concorrenti sempre più lontani gli uni dagli altri. In questa cornice l’Italia non può che puntare sulla carta dell’integrazione nel sistema europeo, con tutte le difficoltà e le contraddizioni (vedi Libia) che si frappongono a una strategia comune.
Sembra una banalità, ma da almeno vent’anni gli italiani hanno sentito parlare di Ue solo alla stregua di una ragioniera che controlla i conti. Al contrario, oggi si presenta come una carta “verde”, l’unica in grado di garantire un futuro sostenibile all’insegna dell’indipendenza. Per non morire cinesi o sotto lo sperone di Trump che non ci farà alcuno sconto.