Chi non ricorda il “Washington consensus”, quel movimento di pensiero che vedeva la forma “di Washington” del capitalismo, il capitalismo liberale, divenire il modello dominante a livello mondiale? Il modello veniva definito “di Washington” essenzialmente perché tanto la sua elaborazione che le sue gambe operative erano costituite in primo luogo dalle grandi istituzioni internazionali (o sovra-nazionali, per certi aspetti) residenti a Washington, DC: il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale in primis, ma anche dal Tesoro del Governo degli Stati Uniti.
Il modello su cui il consenso si basava era centrato attorno una serie di misure, essenzialmente di politica economica ma di potenza tale da raggiungere i livelli della politica e degli assetti istituzionali di Paesi “emergenti o in via di sviluppo”. Di questo modello avemmo piena contezza all’indomani della fine dell’Unione Sovietica e della crisi in Europa centro-orientale. In quell’occasione il Washington consensus avrebbe richiesto, in sintesi, la trasformazione rapida di quelle economie verso il modello di economie di mercato. Val la pena ricordare che la Comunità economica europea voleva un piano di aiuti economici e umanitari, e il supporto a quel processo di “institution building” che riteneva necessario ad assicurare una transizione non dolorosa da un regime a un altro.
Ecco, il modello di capitalismo liberale pensato come modello unico per il funzionamento dell’economia globale. Funzionamento che doveva necessariamente essere esteso alla Cina, che fin dall’inizio degli anni Settanta era venuta all’attenzione degli Stati Uniti e che a partire dalla morte di Mao Tze Dong e l’avvento di Deng Xiao Ping sarebbe progressivamente divenuta il partner essenziale per la realizzazione del progetto. Ma le sciocchezze sulla “fine della storia” si sono rivelate, per l’appunto tali. Ancora nel 2001 gli Stati Uniti speravano di aver definitivamente conquistato la Cina alla logica di mercato per averne prima proposto e poi ingegnerizzato l’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio. Ma gli anni seguenti all’ingresso nell’Omc non furono molto diversi da quelli del ventennio precedente: la Cina continuava a crescere a tassi enormemente più alti di quelli a cui crescevano le economie occidentali; le migrazioni dalle campagne alle città rifornivano queste ultime di forza lavoro a costi contenuti; la competitività internazionale delle merci cinesi era alta e il saldo di bilancia commerciale positivo anno dopo anno; i corrispondenti risparmi cinesi finanziavano generosamente il debito Usa, pubblico e privato.
Ma la supremazia del modello liberista non ha attecchito in Cina: il capitalismo cinese è sempre stato della forma che oggi chiamiamo capitalismo politico e che una volta, mutatis mutandis, chiamavamo economia mista. Si pensi all’importanza dei Piani quinquennali, che vanno ben al di là dell’assegnare obiettivi quantitativi alla produzione: essi sono il luogo in cui si solidificano le scelte politiche del Governo; con essi si stabilisce il peso da dare alla manifattura rispetto all’agricoltura e ai servizi; si stabilisce il ruolo della finanza così come la traiettoria di crescita della popolazione; si stabilisce la proporzione in cui l’attività produttiva deve suddividersi tra imprese a proprietà privata e imprese a proprietà pubblica.
Nell’ultimo Plenum del Comitato centrale del Partito comunista cinese, tenutosi tra il 26 e il 30 ottobre, il quale ha prodotto le linee guida per il Piano quinquennale 2021-2025, sono state prese decisioni che portano a compimento la strategia avviata nel 2013 con la scelta politica della Belt and Road Initiative (Bri), le cosiddette “Vie della seta” in italiano. La Bri è un progetto gigantesco di costruzione e operazionalizzazione di infrastrutture, prevalentemente di trasporto, il cui obiettivo è collegare l’economia cinese a quella europea, a quelle centro-asiatiche, a quelle sud-asiatiche, a quelle africane. Un progetto, dunque, importante non solo per l’enorme spesa in investimenti, ma anche perché questi investimenti renderanno possibile lo scambio internazionale a costi molto più bassi di quelli attuali: si pensi che nel 2020, in piena crisi, per la prima volta nella storia 12.400 treni merci hanno viaggiato dalla Cina all’Europa occidentale, trasportando merci il cui trasporto sarebbe più costoso tanto per via aerea che per via marittima!
Ma questa è la Cina che guarda ai mercati esteri, che siano essi luogo di sbocco per le proprie produzioni o luogo di approvvigionamento per il proprio mercato interno: il potenziamento di quest’ultimo è l’obiettivo cruciale del Piano quinquennale 2021-2025. È così evidente che la strategia economica e geo-politica cinese mira a riequilibrare l’economia del Paese assegnando alle attività produttive certo il compito di esportare, com’è stato nei decenni passati, ma assegnando loro anche il compito di soddisfare la domanda interna che presumibilmente crescerà sotto lo stimolo della spesa pubblica. È la strategia che il Presidente Xi ha definito dual circulation.
L’economia cinese è la sola tra le grandi a non aver subito una recessione nel 2020. Non solo: l’avvio della ripresa in Occidente sta stimolando domanda per i prodotti cinesi al punto che il prezzo dei containers tra Cina ed Europa è passato da circa 2.000 a circa 9.000 euro in pochi mesi. Rimane dunque intatta la competitività delle imprese cinesi sul mercato globale anche mentre esse si apprestano a soddisfare la crescita di domanda interna. E questa crescente attenzione al mercato interno è rintracciabile nell’attenzione crescente del Governo verso i monopoli privati locali, un fatto oggetto di grande attenzione da parte della stampa occidentale negli ultimi due mesi.
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