Negli Stati Uniti a settembre la disoccupazione è scesa al 4,1% dal 4,2% di agosto, sono stati creati molti più posti di lavoro delle attese raddoppiando i numeri del mese precedente e gli incrementi salariali sono stati più alti e maggiori delle attese. Il mercato del lavoro americano tutto suggerisce tranne che uno scenario di forte rallentamento o di recessione. Ai dati statistici si sommano anche le evidenze aneddotiche perché è notizia di ieri che i portuali americani, che avevano fatto preoccupare per i commerci globali, hanno ottenuto un incremento salariale del 62% da spalmare nei prossimi sei anni. Certo, la minaccia di paralizzare i porti a un mese dalle elezioni probabilmente ha pagato più che in altre fasi, ma la dimensione dell’incremento lascia comunque il segno. Alla fine di questo percorso la paga oraria base per un portuale americano sarà di 63 dollari. Anche in questo caso tutto il contrario di quello scenario di deflazione che i mercati sembrano aver sposato.



L’evidenza di questi giorni è che la Fed ha fatto un taglio d’emergenza senza l’emergenza. Che l’emergenza arrivi tra una settimana o tra sei mesi o tra diciotto non è la stessa cosa ai fini delle scelte delle banche centrali di oggi. Esattamente come due anni fa le ipotesi sulla fine del ciclo inflattivo delle banche centrali non sono state un dettaglio; l’inflazione alla fine è scesa, ma due anni dopo quello che ci si immaginava. Gli Stati Uniti continuano su una strada di politiche fiscali espansive che non si conciliano con un forte rallentamento economico. Oltretutto, nessuno dei due candidati alla presidenza sembra interessato a un percorso di consolidamento fiscale. Lo scenario che ha spinto le borse in queste settimane è fatto di due assunzioni: che il rallentamento economico sia contenuto e che l’inflazione scenda e renda possibile il taglio dei tassi. Questo scenario può essere smentito sia per un rallentamento grave, sia per una ripartenza dell’inflazione. Se non c’è recessione i tagli emergenziali della Fed uniti a politiche fiscali espansive rischiano di sovrastimolare l’economia e quindi, alla fine, anche i prezzi.



Questi sono anche i giorni dei rialzi delle borse cinesi. Il Governo di Pechino ha deciso di stimolare l’economia tagliando i tassi e introducendo misure di stimolo fiscale straordinarie che arrivano direttamente ai consumatori. Le due principali economie globali sembrano sullo stesso percorso. Non c’è, quindi, solamente il rischio che l’economia faccia peggio delle attese, ma anche quello opposto e cioè che l’economia sovrastimolata cresca più delle attese e che questi si porti dietro prezzi e tassi più alti. In Europa, poi, non c’è solo la Germania e il suo declino, ma, all’opposto, la Spagna che due giorni fa ha registrato il pmi dei servizi ai massimi da luglio 2023. La banca centrale americana e quella cinese sembrano, come minimo, scegliere un rischio a discapito dell’altro e forse, in qualche modo, lo perseguono.



Nella fase attuale nessuno vuole ritrovarsi con una valuta forte. Non solo, l’incertezza causata dalle evoluzioni geopolitiche spinge i Governi a scegliere obiettivi di breve rispetto a quelli di lungo. Questo schema, apparentemente innocuo, ha un punto di caduta nella salita dei prezzi che lascia sempre indietro porzioni della popolazione costrette a subire la perdita di potere d’acquisto; questo significa l’esplosione delle disuguaglianze. Gli Stati Uniti e la Cina possono governare questi rischi dall’alto di risorse energetiche abbondanti e catene di fornitura solide. Chi non ha queste qualità può solo subire l’inflazione degli altri senza poter mettere in campo contromisure. L’inflazione degli altri arriva a più livelli sui prezzi delle materie prime, dei prodotti e anche dei servizi come, per esempio, quelli turistici.

L’Europa è il soggetto debole in questo nuovo mondo, ma sembra l’unica a non averlo capito; propone, in questa fase, piani a debito che daranno benefici tra una generazione, mentre i suoi concorrenti puntano a sopravvivere nei prossimi dodici mesi.

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