Il settimanale The Economist del 21-27 agosto è dedicato, sin dalla copertina, alla Biden’s debacle e a what it means for Afghanistan and America (cosa vuol dire per l’Afghanistan e l’America). Un editoriale di Marta Dassù su Repubblica del 21 agosto sottolinea che A questa America serve l’Europa.
Questi due titoli sono eloquenti, ma i contenuti degli articoli non trattano di un tema centrale, peraltro quasi ignorato dalla pubblicistica sulla sconfitta in Afghanistan nella settimana scorsa, dopo la fuga – non credo ci sia altro termine per esprimere ciò che è avvenuto – delle forze, e delle ambasciate, occidentali di fronte all’avanzata dei talebani su Kabul: le implicazioni della grave sconfitta dell’Occidente, e in particolare della Nato, in Asia centrale sulle relazioni economiche internazionali.
Pochi mesi fa, lo scorso aprile, si poteva tratteggiare uno scenario ottimista e positivo. Era stata raggiunta un’intesa tra le due sponde dell’Atlantico per una “sospensione” (per quattro mesi) “di tutte le tariffe relative alle controversie Airbus-Boeing su aeromobili e prodotti non aeronautici (soprattutto vini e formaggi, ndr)” che sarebbe potuta essere l’inizio di una Pax Atlantica sotto il profilo economico oltre che politico. Ciò avrebbe potuto comportare un rilancio del negoziato sul trattato su scambi e investimenti tra Stati Uniti e Canada, da un lato, e Unione e europea, da un altro. Il progetto implicava tra i Paesi dell’Atlantico del Nord un’alleanza non solo militare ma anche economica, politica e culturale contrassegnata da una “comune cultura atlantica” delle leadership dei vari Paesi.
Ora questo progetto rischia di essere, ancora una volta, accantonato. Negli Stati Uniti, Biden, appena eletto Presidente, ha bassissimi indici di popolarità dopo la decisione di sgombrare l’Afghanistan in pochi giorni dopo venti anni di guerra, 2000 militari americani morti in combattimento e 20.000 feriti, nonché una spesa di 2.200 miliardi di dollari. Non che gli americani aspirassero a continuare per sempre una guerra in gran misura considerata perduta da anni. Avrebbero, però, voluto un finale meno umiliante di quello effettivamente verificatosi.
La conseguenza della debacle in Asia centrale può essere il ritorno a un isolazionismo ancora più spinto di quello dell’America First della Presidenza Trump. Tale isolazionismo sarebbe dannoso per tutti, specialmente in una fase come l’attuale in cui il mondo sta cercando di uscire dalla recessione causata da una pandemia peraltro non ancora debellata. La frammentazione dell’economia internazionale, il ritorno a barriere agli scambi e agli investimenti, la fine di progetti su “fiscalità minima” per limitare i “paradisi tributari” e le loro implicazioni recherebbero un grande danno a un’economia internazionale ancora ferita dal Covid-19.
La fine ingloriosa della guerra in Asia centrale potrebbe essere l’occasione per un rilancio del riassetto dell’economia internazionale; a questo proposito, c’è anche chi vagheggia, ancora una volta, di una “nuova Bretton Woods”, ipotesi, peraltro, molto lontana. L’esigenza di un riassetto dell’economia internazionale per favorirne la ripresa dopo la debacle occidentale (oltre che Usa) in Asia centrale, è ben colta dalla proposta del presidente del Consiglio italiano Mario Draghi di dare a questo tema centralità alla riunione dei Capi di Stato e di Governo del G20 in programma il 30-31 ottobre a Roma.
Tuttavia, al G20 partecipano Stati (segnatamente Russia e Cina) che pensano di ottenere vantaggi (ove non proprio di lucrare) dalla sconfitta degli Stati Uniti e della Nato in Afghanistan. È essenziale che nelle pochissime settimane che ci separano dall’evento, i Paesi occidentali riescano a delineare una proposta comune, come base delle discussioni del G20. L’Italia, che presiede il G20 2021, ha la responsabilità principale nell’elaborazione di una proposta che riguardi quanto meno il commercio, la finanza e un’equa ripartizioni dei migranti afghani che già premono sulle frontiere europee.
Questa volta sta all’Europa, e in particolare all’Italia, tendere una mano agli Stati Uniti e predisporre la prima bozza della proposta da approfondire in sede Ue e, successivamente, con gli Usa, il Canada e gli altri maggiori Paesi ad economia di mercato in sede Ocse.
I tempi sono strettissimi se si mira a un’approvazione al G20 di fine ottobre. È un’opportunità e una sfida che la diplomazia economica internazionale dell’Italia deve saper cogliere.
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