In questi giorni dominati dal collasso dell’Afghanistan e dall’imbarazzante declino del secolo americano, rischia di passare inosservata o quasi la svolta, che potrebbe essere epocale, di Pechino. Senza abiurare ufficialmente la parola d’ordine di Deng Xiao Ping (“arricchirsi è rivoluzionario”), il presidente Xi ha invitato il Paese a darsi regole più severe nei confronti dei ceti ad alto reddito che “devono essere chiamati a restituire alla collettività una parte di quel che hanno guadagnato”. Non è un monito generico, ma il senso delle delibere che, sotto la guida del Presidente, sono state prese in settimana nella riunione del Comitato economico e finanziario del Partito Comunista con l’obiettivo di “spingere i ricchi a dare di più”. Il Comitato, riferiscono i media locali, ha sottolineato che, dopo una lunga fase in cui il Partito ha permesso a individui di avere come obiettivo principale l’arricchimento personale, oggi intende porre quale priorità “la prosperità comune a vantaggio di tutti”.



Si spiegano così le mosse che, dallo scorso novembre in poi, hanno spiazzato gli analisti occidentali, sia politici che finanziari. Dieci mesi fa, a sorpresa, il Governo di Pechino ha sospeso quella che doveva essere la maggiore operazione mondiale dell’anno, cioè lo sbarco in borsa del gigante Ant, la leva finanziaria di Alibaba, la potenza numero uno del commercio elettronico avviata a diventare, con 630 milioni di clienti, la vera padrona della nuova finanza di Pechino, così potente da sfidare l’autorità del Partito. La punizione a Jack Ma, il potentissimo fondatore di Alibaba, sembrava destinata ad essere un gesto dimostrativo, il segnale del limite oltre cui non si poteva andare. E nello stesso modo è stato interpretato il brusco divieto a operare imposto a Didi, la Uber cinese, dopo che la società è sbarcata a New York senza attendere il via libera delle autorità. 



Poi, però, sono arrivati altri segnali ancor più precisi: nel mirino sono finiti i videogame di Tencent, giudicati alla stregua del “nuovo oppio” per la gioventù, accusa gravissima nel Paese che ancor oggi freme di sdegno al ricordo dell’umiliazione subita ai tempi della guerra voluta dal Regno Unito per garantire la circolazione della droga in Cina. Ma la scure di Xi si è scatenata ancor di più contro le scuole private, potenti e ricche al punto da essere quotate nelle Borse americane. Il presidente ha voluto spezzare la pratica, ormai quasi indispensabile, di affidare il figlio alle cure, costosissime, di tutor in grado di prepararlo per l’ammissione alle scuole più prestigiose, a garanzia di un futuro sicuro e agiato. D’ora in poi, assicura Xi, non andrà più così. Lo Stato si riappropria della leadership nell’educazione, a vantaggio di chi non può permettersi un’educazione troppo costosa. 



La stretta su videogiochi e scuole, nonché le briglie ai colossi di Internet che attraggono con i loro soldi, altra accusa, i cervelli migliori all’economia del Paese, fanno così parte di un disegno preciso che nasce da una preoccupazione: i cinesi fanno sempre meno figli, al punto che la denatalità minaccia gli obiettivi di crescita. Per fronteggiare i rischi della crescita zero, insomma, Pechino vuol rimuovere ostacoli veri o presunti tali, per consentire alle famiglie tipo (che possono finalmente avere più di un figlio) di crescere e svilupparsi assieme a un moderato benessere da classe media. Di qui una svolta ideologica ardita. Basta con il liberismo, la vera ideologia del laissez faire che ha guidato la crescita ma ha anche aumentato a dismisura le ineguaglianze. Si torna indietro, ma senza alcuna nostalgia per l’economia pianificata. La nuova Cina punta a creare una classe media, senza nulla concedere sul terreno della rappresentanza politica. 

Per puntare a questo risultato il Partito, secondo lo schema che tanto successo ha avuto con Deng Xiao Ping, ha istituito nuove zone pilota. Una sorgerà dove ha sede la holding di Alibaba, già forte di una robusta presenza del settore privato. Qui le autorità locali hanno stabilito l’obiettivo di aumentare il reddito pro-capite di ben il 45% in cinque anni, e di portare i salari a rappresentare oltre il 50% del Pil. Ma, tema ben più delicato, si tratterà anche di metter mano allo strumento fiscale, per garantire al welfare, oggi all’osso, di assicurare il benessere della nuova Cina. E questo vuole dire affrontare il terreno della patrimoniale da imporre ai ricchi (che avranno meno soldi da spendere per le borse di Hermès), ma anche le tasse sulla casa, che andranno a toccare i redditi di fasce sociali ben più estese. 

Dalla dittatura del proletariato al liberismo più incontrollato per fare rotta, infine, verso una dittatura dei ceti medi senza libertà politica. Riuscirà la scommessa? La Cina, negli ultimi cinquant’anni, è stato un grande laboratorio, che ha smentito buona parte delle previsioni anche grazie all’uso spregiudicato della forza. Oggi il Drago è di nuovo in movimento, ben deciso a far valere nello scacchiere geopolitico la sua grande energia. Senza aver paura di sfidare Wall Street o la flotta Usa. 

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