Sono tempi interessanti per chi segue l’andamento del dollaro, la posta in gioco è alta e non ammette mezze misure: o il baratro o il successo. La valuta americana ormai da tre settimane si è assestata sui suoi massimi, sorprendendo, tanti analisti.
Da quando nell’agosto del 1971 il presidente Nixon decise di sganciare il dollaro dall’oro, la valuta americana ha mantenuto la sua funzione di perno del sistema monetario internazionale, grazie anche al suo rapporto privilegiato con il petrolio. Il crollo del greggio registrato nel mese di aprile ha segnato la fine di un’era e ha indotto molti a pensare che la fine del dollaro fosse imminente, ma le cose sono andate in modo decisamente diverso.
Grazie al crollo della domanda su scala globale causato dall’emergenza sanitaria in atto, la moneta più liquida del mondo è diventata un bene rifugio per tanti investitori alle prese con una fase di radicale incertezza. “E’ un grande momento per avere un dollaro forte”, ha dichiarato Trump, mostrando ancora una volta una certa disinvoltura nel ribaltare le proprie convinzioni.
Il presidente americano, che fino al giorno prima aveva mostrato il suo gradimento per l’andamento del dollaro, aveva criticato apertamente la scelta di Jerome Powell e quindi della Fed, colpevoli di non aprire una nuova fase di tassi negativi, che nelle speranze del presidente Usa avrebbe reso le esportazioni più competitive e favorito le corporations che devono convertire i loro guadagni da valute estere in dollari. Ma nel momento in cui l’outlook dell’economia americana ci dice che per la ripresa bisogna andare ben oltre il 2021 e il mercato del lavoro registra performance da incubo – in cui in otto settimane sono andati persi i posti di lavoro creati in dieci anni e i sussidi di disoccupazione sono saliti a 36 milioni – l’economia Usa si rifugia nell’unica certezza che le rimane. Anche per questo motivo Trump da dichiarato che adesso “tutti vogliono essere nel dollaro”, ascrivendo alla sua presidenza i meriti della rivalutazione della valuta americana.
Provare a fare un’esegesi del pensiero del presidente Usa non rientra nelle nostre capacità, ma è indicativo che queste dichiarazioni hanno fatto da corollario a un’affermazione che sembra avere un portato simbolico molto più forte di quello assegnatole dalla retorica presidenziale. Celebrando la morte della globalizzazione a causa della pandemia in atto, Trump ha esibito l’arma con cui gli Stati Uniti si apprestano a combattere la prossima guerra commerciale con la Cina. Inoltre, la presidenza americana, si aspetta che il dollaro forte possa rafforzare la fiducia del sistema finanziario nella capacità dell’economia americana di garantire il proprio debito, che, conviene ricordarlo, a fine crisi toccherà cifre che rasenteranno l’incommensurabilità.
In definitiva, il rafforzamento del dollaro potrebbe essere funzionale a una riconfigurazione del ruolo dell’economia Usa nel contesto del commercio internazionale, accelerando ulteriormente il processo di decoupling fra l’economia americana e quella cinese.
In un quadro del genere, la rivalutazione del dollaro potrebbe forzare le industrie americane a riportare in patria la propria produzione e al contempo rafforzare la funzione di valuta di riferimento del commercio mondiale.
Indipendentemente dal tentativo di Trump di utilizzare in vista delle prossime elezioni il dollaro forte come strumento di una contro-globalizzazione in chiave “America first”, all’orizzonte si addensano nubi fosche per la moneta americana. Il paradosso dell’economia Usa, in cui il rallentamento della crescita porta alla rivalutazione del dollaro, che a sua volta finisce per fungere da ulteriore freno per l’economia reale, va connesso alle politiche economiche che hanno attuato misure espansive come quella che ha portato la Fed a immettere nel sistema più di un trilione di dollari nelle ultime settimane. Un processo che fa emergere le criticità strutturali del sistema, poiché preservare a tutti i costi il Dollar standard porta inevitabilmente tutte le monete a svalutarsi nei confronti dell’oro e delle cryptovalute.
Il fatto che il dollaro sia asceso al ruolo di bene rifugio nonostante il ricorso a politiche espansive che non hanno riscontri nella storia dell’economia, è indice della debolezza di tutte le monete cartacee inconvertibili che fanno capo ad economie nazionali che in qualche modo sono ancora legate all’economia americana. Mentre sempre più analisti paventano il rischio che l’economia Usa vada incontro a un ritorno dell’inflazione e a una crescente instabilità del sistema finanziario, la minaccia più concreta al dominio del dollaro sembra, però, provenire ancora una volta dalla Cina.
Proprio nel pieno della crisi sanitaria il colosso asiatico ha dato un’accelerazione alla creazione dello Yuan Digitale. In quattro città era già possibile utilizzare con lo smartphone un’applicazione con cui accedere direttamente a un conto aperto nella Banca centrale. Una rivoluzione che comporterebbe per le banche l’abbandono della gestione dei pagamenti e il ritorno alla funzione classica di raccolta del risparmio e dell’esercizio del credito. Un vero e proprio reset tecnologico per il sistema finanziario, che metterebbe fuori gioco le banche che si sono indebitate troppo e renderebbe obsolete le carte di credito che sono parte integrante del sistema finanziario americano.
Forse è troppo presto per prevedere la fine di quello che negli anni Sessanta Valéry Giscard d’Estaing definì “l’esorbitante privilegio” del dollaro che dalla nascita del Dollar standard permette agli Usa di finanziare il proprio debito in modo estremamente vantaggioso, ma la guerra fra valute che dalla crisi del 2008 è diventata sempre più aspra, difficilmente avrà come vincitore una moneta nazionale, ma probabilmente aprirà il campo all’ascesa delle monete digitali.
Non dovremo aspettare molto per sapere se questo processo porterà a un sistema finanziario multipolare in cui lo status di moneta internazionale spetterà a un paniere di valute di riferimento o se assisteremo al ritorno sotto altre forme della primazia di un’unica moneta in grado di assicurare l’egemonia geopolitica e quindi economica di una nazione.