Babbo Natale in anticipo ha portato altri doni sotto l’albero del Presidente Biden, “sleepy Joe” ovvero il morto di sonno come ama definirlo Donald Trump. Il dormiglione, però, ha messo a segno un successo insperato solo fino a pochi giorni fa: il prezzo medio della benzina in Usa è sceso a 3,33 dollari al gallone (poco più di 4 litri) un filo sotto i 3,34 dollari segnati a gennaio, prima dell’invasione russa in Ucraina.



L’impennata del petrolio, salito in estate a 120 dollari il barile, è ormai alle spalle, con effetti benefici sul fronte dell’inflazione. Al punto che Washington è pronta a ricostituire le riserve strategiche di greggio.

È, per ora, l’ultimo regalo di un anno fortunato, del tutto insperato se si guarda al quadro del 2021. Allora gli Usa, in precipitosa ritirata da Kabul, sembravano avviati a un declino quasi irreversibile così come lo teorizzava Vladimir Putin. La maggior parte degli osservatori della politica americana dava per scontata l’affermazione Repubblicana alle elezioni di midterm. trampolino di lancio per la rivincita di Trump. Nel frattempo buona parte degli economisti criticava la politica economica promossa dalla Casa Bianca che aveva riversato una pioggia di quattrini sul mercato per riavviare l’economia dopo il Covid. E i maggiorenti del Partito democratico avevano già avviato la ricerca di un candidato più giovane e più convincente da opporre alla marea sovranista capitanata da Trump o da un altro candidato di destra.



Al contrario, il vecchio Biden, politico di razza, ha messo a segno successi a ripetizione. La macchina militare americana, quella che si era clamorosamente inceppata in Afghanistan, ha sostenuto con grande efficacia la resistenza ucraina, accompagnata dalla ripresa della Nato e la parallela crisi dell’alleanza sul gas tra Russia e Germania. La vittoria dei Democratici in Georgia garantisce, infine, una maggioranza insperata al Senato che consentirà ai Democratici di accelerare sul fronte delle riforme economiche alla luce di quanto il Presidente ha sostenuto un settimana a a Phoenix, Arizona, visitando in compagnia di Tim Cook, numero uno di Apple e altri Big Boss della tecnologia, l’enorme investimento da 40 miliardi di dollari che la taiwanese Tsmc sta realizzando con l’obiettivo di fornire i chips per la Mela ma anche il Pentagono e la Silicon Valley dei semiconduttori a 3 nanometri che permetteranno nuovi salti di qualità nell’intelligenza artificiale e chissà che altro.



“Chi ha detto – ha tuonato Biden – che l’America non possa guidare la rivoluzione industriale di questo secolo?”. Una domanda retorica rivolta agli alleati europei, sbarcati pochi giorni prima a Washington per lamentarsi dei provvedimenti che dal prossimo gennaio prevedono sostegni a pioggia per dieci anni per centinaia di miliardi (369 per l’esattezza) per affrontare il climate change: una buona parte dei quattrini servirà a finanziare le vendite di auto elettriche garantendo un contributo di 7.500 dollari su ogni veicolo. Peccato che lo sconto valga solo per le auto costruite sul suolo americano, così come i contributi per sviluppare energie alternative, con il risultato di attrarre le aziende d’oltreoceano (come Enel).

È protezionismo? Senz’altro sì, anzi qualcosa di più. Non si tratta solo, come voleva Trump, di riportare negli Usa i posti di lavoro. Semmai di ricostruire una leadership assoluta in grado di ricacciare indietro le ambizioni cinesi per un sorpasso che Pechino dava già per scontato. Al contrario, dopo aver cavalcato la globalizzazione fornendo a Pechino know-how e capitali, gli Stati Uniti hanno cambiato registro come dimostra la decisione di “imporre” all’Olanda il divieto di esportare i macchinari più evoluti di Asml, l’azienda che produce i macchinari più sofisticati per i chips di nuova generazione, verso il mercato cinese. Insomma, la combinazione vincente per lo sviluppo deve restare in mani Usa. Gli “amici” potranno contare su una nuova forma di globalizzazione, come prevede lo sbarco in Europa di Intel, per rifornire le aziende dei chips necessari. E nulla più.

Non stupiscono le reazioni dei partners, a partire dalla Germania che, dopo aver rinunciato al gas russo, vede a rischio lo sviluppo delle relazioni con la Cina, le più preziose per i colossi dell’industria d’oltre Reno. È probabile che, alla fine di un negoziato, verranno garantiti all’industria europea gli stessi diritti oggi riservati alle auto prodotte da Messico e Canada. Ma sarà una concessione unilaterale, frutto di una scelta che il Presidente Usa si riserverà di poter revocare. Non un accordo in base alle regole della Wto, su cui gli Usa hanno potere di veto. O tantomeno lo sbocco di una guerra commerciale che l’Europa, più che mai dipendente dagli armamenti Usa, non può certo permettersi.

L’anno, insomma, si chiude con un netto successo politico, strategico, militare e tecnologico della potenza americana, come ben compreso dal Premier Meloni.

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