Il prossimo capitolo delle “guerre commerciali” sarà tra Stati Uniti e Unione europea come ci è stato ricordato in questi ultimi giorni da un elenco abbastanza lungo di commenti che hanno fatto capolino su diverse testate internazionali. Sembra avviarsi infatti verso la conclusione il confronto/scontro tra Cina e Stati Uniti. L’obiettivo americano, fallito, andava sicuramente oltre il mero riequilibrio degli squilibri commerciali con il tentativo di condizionare la politica economica cinese e le sue riforme; lo squilibrio commerciale, l’enorme surplus di esportazioni dell’economia cinese, si ridurrà con la collaborazione di Pechino e i dati dei primi due mesi dell’anno, per quanto assolutamente preliminari, suggeriscono questo trend con una riduzione del surplus commerciale cinese verso gli Usa del 9,2%.



Il prossimo capitolo verrà aperto con l’Unione europea e in particolare con la Germania che ricordiamo ha ancora oggi negli Usa il principale mercato delle proprie esportazioni. Ieri sul Financial Times si faceva il punto della visione americana e inglese del problema. Una visione che ha diversi punti in comune con le critiche dell’Europa “latina” e in particolare di Francia e Italia. Il quotidiano elencava i fronti aperti per la politica estera tedesca, dalla Cina alla Russia passando per il Medio Oriente, segnalando che il problema principale è quello con lo storico alleato americano. Il ministro degli Esteri tedesco Maas ritiene, per esempio, che oggi occorra “riordinare la stessa relazione transatlantica”.



Le critiche alle Germania prendono le mosse da due questioni. La prima è l’enorme surplus commerciale verso gli Stati Uniti e i membri dell’Unione europea e la seconda è il rifiuto da parte tedesca di contribuire alla crescita globale con piani di stimolo che autorevolissimi commentatori americani definiscono largamente insufficienti, per non dire ridicoli, sia rispetto alla fase dell’economia globale, sia agli squilibri tra Germania e partner europei, sia, soprattutto, alla necessità di rilanciare la crescita nell’Unione europea. Il cuore della questione e della critica è l’opportunismo tedesco rispetto agli assetti geo-politici ed economici degli ultimi 70 anni.



Scrive l’FT, “Berlino ha cercato di perseguire i propri interessi politici ed economici quasi esclusivamente all’interno di organizzazione multilaterali e sovranazionali” mentre queste organizzazioni sono sotto attacco “Berlino sta facendo poco per sostenere queste strutture” e anzi “alcuni credono che le recenti politiche tedesche abbiano fatto più male che bene a organizzazioni come la Nato e l’Unione europea”. La Germania è impegnata in un ordine particolare, costruito sull’Unione europea e la Nato, ma non è preparata a pagare per questo sistema.

È la stessa critica che arriva alla Germania dall’Italia e dalla Francia e cioè quella di essere puro “free rider”, diciamo “approfittatore”, di un sistema che oggi mostra tutte le sue criticità, soprattutto in Europa, senza essere disposta a “pagare” per i benefici che quel sistema garantisce. È come se l’approccio fosse quello di approfittarsene finché dura senza però volersi impegnare irrimediabilmente; potendo, eventualmente, tirarsi fuori dopo aver raccolto una fortuna perdendoci poco o niente. È il Financial Times a descrivere con brutalità la questione con le parole di una parlamentare della Spd: “Nessun Paese ha beneficiato di più delle vecchie strutture, sia che si parli di commerci globali o delle regole internazionali. Ma tutto questo è sotto pressione ora e non c’è ritorno ai vecchi giorni felici”.

È la stessa analisi espressa da alcuni dei maggiori economisti che hanno servito alla Federal Reserve molto prima dell’avvento di Trump. Economisti che ormai accusano apertamente la Germania soprattutto vista la congiuntura internazionale, il deficit commerciale americano insostenibile, e soprattutto visti gli effetti sull’Unione europea del rifiuto tedesco di riequilibrare gli squilibri interni all’Europa. Per gli squilibri del debito c’è la punizione dei mercati via assenza della Bce, mentre per quelli altrettanto pericolosi dei “commerci interni” non ci sono correzioni se non lo sfaldamento dell’unione monetaria.

Il rilancio dell’economia e della domanda dell’Unione europea ovviamente cospirerebbe a riequilibrare sia gli squilibri interni che quelli tra Unione europea e Stati Uniti; ciò non si può neanche lontanamente contemplare senza un cambio di marcia della maggiore e meno indebitata economia dell’unione. Queste considerazioni banali vengono scritte senza giri di parole ormai da diverso tempo.

Se tali questioni tra Unione europea/Germania e Stati Uniti non vengono risolte “amichevolmente” con un cambio di passo tedesco è chiaro che le tensioni tra le due sponde dell’Atlantico potranno solo aumentare con effetti imponderabili. In questa partita si fa molta fatica a non riconoscere le ragioni anglo-americane così simili a quelle italo-francesi e le critiche a un’economia che beneficia di un sistema e di un ordine in cui Stati Uniti fanno politiche fiscali espansive “irresponsabili”, come la Francia di Macron dopo le proteste di piazza, in modo opportunistico e continuando ad alimentare squilibri che hanno riflessi globali e ormai di dimensione tale da danneggiare quello stesso sistema sia nell’alleanza transatlantica. sia nel suo terminale orientale con un’Unione europea sempre più fragile e dilaniata internamente.