Piazza Tienanmen, cuore di Pechino, è in questi giorni sbarrata al pubblico per preparare a dovere la coreografia della festa più solenne: il centenario della fondazione del Partito comunista cinese, fondato giusto un secolo fa da un manipolo di intellettuali riuniti in un hutong nella zona di Shanghai controllata dalla Francia, oggi il cuore della zona più chic della capitale finanziaria e manifatturiera del Paese.
Al solito, anzi stavolta più del solito, il Drago ha deciso di fare le cose in grande: fino al 2 luglio resteranno chiusi il mausoleo di Mao Zedong e i due musei, quello della Città Proibita e quello in Piazza Tienanmen. Le autorità hanno anche promulgato un avviso sulla sicurezza aerea che prevede il divieto totale di utilizzo dei droni fino al 15 luglio e il lancio di “oggetti volanti” che potrebbero compromettere la sicurezza delle attività “aeree” organizzate durante le celebrazioni, come il rilascio di colombe in volo e di palloncini.
Anche sul fronte finanziario non sono stati lesinati gli sforzi per arrivare nel modo giusto all’appuntamento. La banca centrale, dopo una stretta per evitare bolle finanziarie, ha ripreso a erogare liquidità in maniera robusta: con l’avvicinarsi della data della celebrazione ufficiale, le autorità di Pechino vogliono evitare qualsiasi situazione di stress capace di rovinare la festa del motore della Rivoluzione, quel Partito che dal 1990 a oggi, dopo aver adottato il motto di Deng Xiao Ping (“arricchirsi è rivoluzionario”), ha guidato la trasformazione più formidabile della storia: negli ultimi 30 anni il Pil pro-capite di 1,4 miliardi di persone, tante quanto sono i cinesi, si è moltiplicato di 17 volte. Nel totale, la ricchezza prodotta annualmente è salita di 40 volte in dollari correnti, sebbene sia di un terzo ancora inferiore a quella Usa (ma è già tre volte quella nipponica, di cui era un decimo trent’anni fa). Convertita usando le parità di potere d’acquisto, che dribblano la questione della sistematica sottovalutazione dello yuan (del 40% secondo l’ultimo Big Mac Index), è già di un 15% sopra quello statunitense.
Sono queste le dimensioni del colosso “giallo” con cui siamo chiamati a fare i conti. Un gigante che fa paura, se si guarda alla repressione delle libertà di Hong Kong o degli uiguri, ma che non è l’espressione di una dittatura priva di consenso o di una crescita basata sul basso costo del lavoro. Ma, al contrario, è il frutto di una strategia a lungo termine, come dimostra la storia degli ultimi mesi, quelli segnati dalla ripresa post-Covid. A sorpresa, infatti, Pechino ha cercato di rallentare la reazione alla crisi imposta dai contagi. Per carità, l’economia crescerà quest’anno dell’8%, una performance buona seppur non eccellente per il Drago che ci ha abituato a voli strepitosi, così preziosi per far ripartire il mondo dopo la crisi di Lehman Brothers. Altri tempi.
Stavolta, Pechino ha frenato gli acquisti di materie prime. Le autorità, poi, pur di evitare crack in coincidenza con la solenne festività, hanno potenziato i controlli sulla finanza ombra, senza risparmiare gruppi e consorterie in passato protette. Ne hanno fatto le spese gruppi come l’immobiliare Evergrande (125 miliardi di dollari di debiti) o il gruppo Suning. Va avanti anche la campagna per mettere le briglie a Jack Ma, punito per l’eccessiva indipendenza del suo impero. Il gruppo Ant, il cuore finanziario di Alibaba, d’ora in poi dovrà condividere le sue informazioni sui clienti con l’agenzia di Stato.
L’elenco potrebbe continuare. Ma la diagnosi è chiara. Xi Jinping ha deciso di metter le briglie a uno sviluppo troppo sbilanciato sul fronte dei debiti, anche a costo di rallentare il formidabile potenziale dell’export made in China, del resto accompagnato da disastri ambientali sempre meno tollerabili. La nuova economia dovrà basarsi soprattutto sui consumi interni e così accompagnare una delicata fase di passaggio della società: anche in Cina, infatti, si fanno meno figli e, passate le feste, il Partito (la cui autorità precede e sopravanza lo Stato) dovrà porre mano a un’impopolare riforma della previdenza. In Cina oggi si ha diritto alla pensione a 54 anni, un traguardo insostenibile e anacronistico, raggiunti certi livelli.
Di qui una sfida basata su quattro tendenze che rappresentano altrettante filiere di sviluppo: l’innovazione tecnologica, la transizione ecologica, l’evoluzione dei consumi (lusso ma non solo) e le innovazioni in campo medicale. Il tutto con una forte accelerazione della rivoluzione digitale che già sta cambiando le abitudini di consumo, di lavoro o di svago: molte aziende cinesi sono leader globali di settori trainanti come l’e-commerce e i pagamenti online. O nelle infrastrutture fondamentali come il 5G, i data center, il cloud o l’intelligenza artificiale.
È questo il competitor che l’Occidente deve imparare a fronteggiare: un despotismo più o meno illuminato che, al contrario di quanto si pensava, ha saputo combinare progresso economico e dittatura. Alla vigilia delle parate di inizio luglio resta impressa l’immagine melanconica della lunga coda di cittadini in fila a Hong Kong per comprare l’ultima copia di Apple Daily, il tabloid voce della rivoluzione degli ombrelli, condannato alla chiusura. Ma non è detto che sia finita qui. Come insegnano le vicende dal Novanta in poi, non ha senso parlare di fine della storia. E questo vale anche per la Cina.
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